Rinuncia agli atti, al processo, alla domanda

Con la sentenza 112/2021, la Seconda Sezione giurisdizionale centrale d’appello prova a fare il punto su una pluralità di temi, mettendo a fuoco questioni di carattere processuale e di natura sostanziale.

Il fatto.

La vicenda in fatto si presenta estremamente complessa.

La Giunta comunale di un Comune lombardo adottava, all’unanimità, nel 2001 il programma triennale delle opere pubbliche 2002/2004 ex art. 14 L. 109/1994 con l’annesso elenco di interventi, tra i quali figurava un impianto natatorio per una spesa complessiva prevista di € 3.098.740,00, cui avrebbe dovuto farsi fronte con finanziamento a carico di privati e con una compartecipazione comunale in ragione di € 103.290,00 annui. Soltanto con delibera consiliare del 2003 era approvata la proposta di project financing finalizzato alla progettazione, costruzione e gestione del Centro natatorio composto da impianto acqua, campo di calcio e sistemazioni strutture esistenti”, con la realizzazione, altresì, di un centro complementare ad uso polifunzionale, a prevalente attività commerciale, attinente all’attività sportiva e tempo libero la cui compatibilità con il piano Regolatore. Si disponeva, altresì, che, ad intervenuta esecutività della delibera di approvazione della variante al PRG, sarebbe stata indetta apposita gara per l’individuazione dei due soggetti che, oltre al promotore, avrebbero potuto partecipare alla procedura negoziata per l’affidamento e che, in mancanza di offerte, la procedura negoziata avrebbe potuto essere condotta anche solo con il promotore. Poiché l’erigendo complesso polifunzionale ricadeva in zona Parco, nel marzo 2004, il Consiglio di Amministrazione del Consorzio Parco esprimeva parere favorevole alla variante al PRG, condizionandolo alla esclusione di “centri commerciali”, in quanto in contrasto con l’art. 23 (rubricato “Ambiti per infrastrutture sportive e ricreative”), delle NTA del PTC del Parco che vietava l’insediamento nelle aree del Parco di ogni “attività diversa da impianti e infrastrutture per lo sport ed il tempo libero”. Su tale motivazione, nell’aprile 2004 alcuni cittadini ed imprese proponevano, avverso la suddetta delibera consiliare, ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con il quale veniva contestata la realizzazione della nuova superficie “commerciale” di mq 2.200, poiché in contrasto con il citato art. 23.

Con delibera n. 38 del 26 aprile 2004 (avente ad oggetto la “approvazione definitiva ai sensi del comma 4 dell’art.19 del d.P.R. 08.06.2001 n.327 della delibera n.71/2003”) – adottata, su proposta del Coordinatore tecnico comunale, con il voto favorevole del Sindaco e di alcuni consiglieri di maggioranza, il Consiglio comunale recepiva le prescrizioni dell’Amministrazione provinciale, nel senso dell’inserimento nel futuro bando di gara dell’obbligo di verifica del percorso di un torrente che sarebbe stato interessato dai lavori, al fine di non comprometterne l’efficienza idraulica, mentre, per le osservazioni mosse all’iniziativa dal Consorzio Parco, precisava che nel progetto preliminare era previsto l’utilizzo di un’area di circa 2200 mq ad attività commerciale per una superficie coperta di circa 1500 mq., ma che su proposta dello stesso promotore, sarebbe stato realizzato un centro complementare ad uso polifunzionale, a prevalente attività commerciale attinente lo sport e il tempo libero, con esclusione di qualsivoglia “centro commerciale” così come definito dal d.lgs. 31/03/1998 n. 114.

Con delibera del 3 novembre 2004, n.243, la nuova Giunta comunale, insediatasi all’indomani delle consultazioni elettorali del giugno 2004, dichiarava di non voler realizzare il progetto del centro natatorio “così come previsto dalla precedente Amministrazione”, e di condividere in parte “le motivazioni … indicate nel ricorso straordinario al Presidente della Repubblica”, e deliberando, di conseguenza, di rinunciare alla difesa legale dell’Ente nel suddetto procedimento. Dopo una lunga fase interlocutoria con I’A.T.I. proponente, all’esito della quale, nell’ottobre 2006, quest’ultima invitava l’Amministrazione comunale ad esprimersi formalmente circa il proprio intendimento rispetto alla procedura avviata, riservandosi di agire giudizialmente per la tutela dei propri diritti, con delibera del dicembre 2006, con il voto favorevole del Sindaco e dei nuovi consiglieri di maggioranza, previa assunzione di apposito parere legale, il Consiglio comunale annullava le proprie precedenti deliberazioni del 2003 e del 2004, sulla scorta di diversi motivi, non ultimo quello dell’omessa presentazione della cauzione da parte del promotore (in misura pari al 2% dell’investimento) e dell’avvenuta presentazione, in data 16 marzo 2004, di una raccolta di firme di cittadini contro il progetto di costruzione del nuovo centro natatorio.

La delibera era impugnata innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia che, con sentenza del 2008, in accoglimento del ricorso proposto, annullava l’atto impugnato, compensando le spese. Nel frattempo, con Decreto del Presidente della Repubblica 23 novembre 2007 veniva accolto il ricorso straordinario al Capo dello Stato avverso la delibera C.C. del 2003, sulla scorta del parere del Consiglio di Stato che aveva evidenziato la possibile violazione delle Norme Tecniche d’Attuazione del Piano Territoriale di Coordinamento del Parco regionale, quale vizio della proposta originaria. Di qui, con delibera dell’ottobre 2008, la Giunta comunale, preso atto delle menzionate pronunce, e dell’asserita illegittimità derivata della delibera del 2004 – ritenuta meramente confermativa della precedente (oggetto di annullamento in sede di ricorso straordinario) – dando mandato all’Ufficio Tecnico LL.PP. di procedere con i dovuti atti consequenziali. Con successiva delibera consiliare, si ratificava l’operato dell’organo esecutivo. Entrambi i provvedimenti erano impugnati dinanzi al giudice amministrativo che con una prima sentenza non definitiva del giugno 2009, ritenendo che l’annullamento della delibera consiliare del 2003, all’esito del ricorso straordinario, non potesse determinare l’automatica caducazione della successiva delibera del 2004, annullava gli atti impugnati e, non ritenendo più realizzabile il progetto di project financing, in considerazione dell’approvazione nell’anno 2008 del Piano di Governo del Territorio, non impugnato dall’ATI – che aveva disciplinato il sito in questione azzonandolo ad “area per attrezzature sportive” – respingeva la domanda risarcitoria in forma specifica, rimettendo a successiva decisione, da adottarsi all’esito di acquisizioni documentali, la liquidazione dei danni e la pronuncia sulle spese.

Con successiva sentenza del giugno 2010, il T.A.R. per la Lombardia condannava il Comune al risarcimento del danno in favore delle Società ricorrenti nella misura di € 334.891,00 di cui € 100.000,00 per la redazione del progetto dell’impianto ed il rimanente per perdita di chances di guadagno a causa della mancata gestione del servizio, oltre a rivalutazione monetaria ed interessi, nonché al pagamento delle spese di giudizio liquidate in € 8.000,00. L’appello proposto dal Comune era poi respinto dal Consiglio di Stato con sentenza del 2014, che condannava l’ente soccombente alle spese di lite, quantificate in € 4.000,00, oltre accessori. Nelle more del giudizio d’appello, il Consiglio comunale, con deliberazione del settembre 2013, provvedeva al riconoscimento del debito fuori bilancio ex art. 194 TUEL 267/2000, liquidato in € 384.893,07 con determinazione del febbraio 2014 del Responsabile dell’Area Risorse ed Organizzazione – Servizi Finanziari, cui seguiva l’emissione del mandato di pagamento, mentre la liquidazione delle spese processuali dovute in esecuzione della menzionata sentenza del Consiglio di Stato per l’ulteriore importo € 5.864,20, veniva disposta con successiva determina ed emissione del mandato di pagamento.

Copia della deliberazione di riconoscimento di debito fuori bilancio veniva, quindi, trasmessa, ai sensi dell’art. 23, comma 5, della L. 27 dicembre 2002 n. 289, alla Procura regionale.

Il processo.

Espletate le indagini, la Procura regionale emetteva atto di citazione, con il quale conveniva in giudizio i componenti del “primo” Consiglio comunale (Sindaco e consiglieri comunali) che avrebbero concorso, con il proprio voto favorevole, all’adozione delle deliberazioni consiliari del 2003 e del 2004, nonché il Segretario comunale che aveva presenziato, e i tecnici comunali che avevano espresso parere favorevole; citava, altresì, in giudizio, gli amministratori che avevano concorso, con il proprio voto favorevole, all’adozione delle deliberazioni del 2006 e del 2008 al risarcimento del suddetto complessivo danno erariale di € 372.722,32 – al netto della quota ascrivibile a uno dei consiglieri medio tempore deceduto – oltre accessori e spese di giustizia.

Riteneva il requirente sussistenti tutti gli elementi costitutivi di un illecito amministrativo ascrivibile alla condotta gravemente colposa degli amministratori, dei segretari comunali e dei tecnici del Comune, sia pure con quote diverse, in considerazione sia della precipitosa approvazione e conferma dell’approvazione (delibere del 2003 e del 2004) della proposta di project financing con l’A.T.I. proponente, sia del loro illegittimo annullamento in via di autotutela, con un danno patrimoniale pari all’esborso complessivo al quale l’amministrazione comunale era rimasta esposta per effetto della soccombenza in giudizio. Sia la procedura di affidamento del project-financing sia quella di annullamento in autotutela sarebbero state connotate da inescusabili errori di valutazione e procedurali dei vertici amministrativi comunali, e dei tecnici chiamati ad assisterli, ed avessero contribuito a cagionare il danno, e danno indiretto al patrimonio comunale.

La Sezione territoriale rigettava la domanda proposta dalla Procura regionale nei confronti degli amministratori e tecnici, autori delle delibere del 2003/2004 e del 2006, per difetto di nesso causale, nonché quella promossa nei confronti degli amministratori che avevano annullato i detti provvedimenti nel 2008 per difetto di colpa grave.

Avverso la sentenza hanno promosso appello la Procura regionale, in via principale, e in via incidentale condizionata, talune delle parti private, vittoriose nel merito.

Le (principali) questioni devolute in appello.

  1. Ammissibilità dell’appello del p.m. contabile – Nullità della sentenza – Violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato – Efficacia preclusiva derivante dalle conclusioni rassegnate dal rappresentante della Procura regionale in udienza, di segno contrario a quelle esposte nell’atto di citazione.
  2. Responsabilità amministrativa – Nesso causale – Danno indiretto – Limiti al principio di causalità espresso nel brocardo latino “causa causae est causa causati”.
  3. Colpa grave – Parere dell’avvocato esterno – Esimente
  4. Danno indiretto da mancato affidamento in una procedura di project financing.

Le soluzioni adottate.

Sub 1). Dalle conclusioni rese dal p.m. in udienza di segno contrario a quelle esposte nell’atto di citazione non deriva alcun vincolo né alcuna preclusione per l’organo giudicante.

1.1. “Della rinuncia agli atti del processo

Da tale comportamento processuale non può derivare l’estinzione del giudizio, con l’effetto che sarebbe affetta da nullità, per vizio di extrapetizione, la sentenza che si pronunci sulla domanda rinunciata. Ai sensi dell’art. 110 c.g.c., la rinuncia agli atti del processo può essere fatta dalle parti in qualunque stato e grado della causa, e, qualora sia il pubblico ministero a rinunciare, può farlo “motivatamente”, anche mediante dichiarazione in udienza. Pur non occorrendo, allo scopo, formule sacramentali, il contenuto minimo della rinuncia deve consentire di rendere immediatamente percepibile alle altre parti la volontà che il processo non giunga a una decisione di merito; non può, pertanto, ritenersi sufficiente allo scopo indicato, la scelta di rassegnare conclusioni favorevoli a taluni dei convenuti, ove non sia contestualmente dichiarata la volontà di rinunciare, con ciò, agli atti di causa, e di voler provocare, in tal modo, l’estinzione del giudizio. Peraltro, l’art. 110, comma 2, c.g.c. subordina l’efficacia della rinuncia all’accettazione fatta dalle controparti “nelle debite forme”, e, dunque, da intendersi quale rinvio alle forme prescritte dai commi 4 e 5 della detta disposizione. In particolare, l’accettazione deve provenire dalla parte personalmente o dal procuratore munito di procura speciale, e non può contenere riserve o condizioni; ulteriore formalità prescritta per l’accettazione è che essa deve essere fatta verbalmente all’udienza o con atti sottoscritti e notificati alle altre parti. Orbene, le generiche affermazioni provenienti dai procuratori costituiti non possono rappresentare “dichiarazioni di accettazione” nei termini sopra descritti, soprattutto se rese in assenza di “procura speciale” ad hoc, volta a conferire al difensore anche il potere di rinunciare o accettare la rinuncia agli atti proveniente dal p.m. contabile, in presenza di un generale divieto, ex art. 28, comma 4, c.g.c., a carico del difensore di “compiere atti che importano disposizione del diritto controverso, se non ne ha ricevuto espressamente il potere”. Soltanto una volta che il giudice abbia verificato la regolarità (oggettiva e soggettiva) della rinuncia e dell’accettazione, può procedere a dichiarare l’estinzione del processo, con provvedimento avente natura meramente dichiarativa (del perfezionarsi della fattispecie estintiva), e non costitutiva.

Circa, poi, il coordinamento tra l’art. 110 e l’art. 69 c.g.c., i giudici d’appello hanno chiarito che, sebbene le due disposizioni – assieme alla norma che intesta al p.m. contabile i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale (art. 73), compresi gli atti di interruzione della prescrizione (art. 66) – abbiano definitivamente chiarito che al Procuratore regionale competa ogni strumento volto a preservare l’azione a tutela del credito erariale, la novità legislativa non consente di elidere le forme processuali imposte a tutela delle parti. La rinuncia agli atti può spiegare gli effetti previsti dal codice soltanto a condizione che essa si traduca in una sorta di “accordo processuale” volto alla chiusura in rito del processo.

1.2. “Della rinuncia all’azione”.

Parimenti, le conclusioni rassegnate dal p.m. contabile in udienza di assoluzione di uno o più convenuti in giudizio, non posso equivalere a una vera e propria rinuncia all’azione, dal momento che, non solo dal combinato disposto degli artt. 110 e 111 c.g.c., l’estinzione del processo (ove effettivamente accertata nei suoi presupposti) non implica la definitiva abdicazione al diritto di azione (ed è questa la ragione giustificatrice dell’attribuzione di tale potere in capo al requirente), ma, soprattutto, che la rinuncia all’azione non può che provenire dalla parte che ha anche la titolarità del diritto azionato (della quale, invece, il p.m. contabile rimane privo). La sentenza che riscontri l’avvenuta rinuncia all’azione è da considerarsi, infatti, sentenza di merito idonea a precludere la riproponibilità di una nuova domanda sullo stesso oggetto, in quanto accerta la perdita in capo all’attore, del diritto azionato o della possibilità di agire in giudizio. Deve, pertanto, escludersi che il p.m. possa rinunciare ad agire o, recte, deve ritenersi che l’unica forma di rinuncia ammissibile sia quella che si esprime mediante la formalizzazione di un provvedimento di archiviazione, allo stato degli atti e prima dell’instaurazione del processo. Peraltro, anche il potere di “archiviazione” è vincolato alla sussistenza dei presupposti individuati dal primo e secondo comma dell’art. 69 c.g.c., con la conseguenza, cristallizzata al quinto comma, che il Procuratore regionale, chiamato a vistare il decreto di archiviazione, può non condividerne la motivazione, comunicarne le ragioni al p.m. procedente e, in caso di dissenso, può avocare a sé il fascicolo istruttorio “adottando personalmente le determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione erariale” (comma 6). Lite pendente, la parte pubblica potrà far ricorso esclusivamente alla rinuncia agli atti, sempreché da essa non derivi (in virtù del combinato disposto degli artt. 2943 e 2945 c.c.) l’estinzione del credito.

1.3. “Della rinuncia alla domanda”.

Infine, la dichiarazione resa dal p.m. in udienza, del tenore sopra indicato, non può identificarsi neppure quale “rinuncia alla domanda”. L’istituto, di chiara matrice pretoria, è espressione del medesimo principio dispositivo che ispira anche le ipotesi sopra descritte, ed è volto a preservare la possibilità di “ridurre” ovvero “aumentare”, nei limiti della mera emendatio libelli, il petitum sostanziale. La rinuncia può avere a oggetto una delle più domande oggetto di processo cumulato, e, salvo che essa incida sostanzialmente sul diritto controverso, è considerata come uno dei poteri del difensore, tale da non necessitare dell’accettazione della controparte né richiedere forme speciali. Essa è solitamente intesa come «modificazione in senso riduttivo della domanda» quale espressione della facoltà della parte di modificare ai sensi dell’art. 184 c.p.c. (e art. 420 per le controversie soggette al cosiddetto rito del lavoro), le domande e le conclusioni precedentemente formulate. Nel codice di giustizia contabile, la facoltà di modificare le proprie domande ed eccezioni, nei limiti della mera emendatio, è prevista soltanto nel rito pensionistico (art. 164 c.g.c.), mentre nel rito ordinario, dopo la relazione della causa, il p.m. e i difensori “enunciano le rispettive conclusioni, svolgendone i motivi” (art. 91). Orbene, se in capo al Procuratore regionale deve ritenersi salvaguardato il potere di ridurre la domanda nei confronti dei convenuti, soprattutto qualora ciò si risolva in un ridimensionamento del quantum debeatur, deve, per contro, escludersi che il rappresentante della pubblica accusa, in udienza, possa rinunciare alla domanda proposta nei confronti di alcuno dei consorti in lite. Nel caso in cui sussista un litisconsorzio facoltativo (come quello in esame) ciascuno dei rapporti cumulati sono accomunati dall’identità di causa petendi e/o petitum, ma ciascuno conserva la propria autonomia (salve le ipotesi di cumulo necessario) e possono avere diverse sorti processuali. Ne consegue che la rinuncia alla domanda proposta nei confronti di taluno dei soggetti convenuti, nei giudizi di responsabilità, rimane vietata se essa si traduca in una sostanziale rinuncia all’azione, mentre può legittimamente tradursi in una vera e propria rinuncia agli atti, da esternarsi nel rispetto delle prescrizioni codicistiche, con l’effetto di produrre l’eventuale estinzione parziale del giudizio (Cass. civ., sez. II, 17 dicembre 2013, n. 28146).

1.4. “Conclusioni”.

Esclusa la sussumibilità della fattispecie in esame in alcuna delle ipotesi sopra indicate, correttamente i primi giudici hanno evitato di chiudere il processo in rito, con una sentenza di estinzione del giudizio. Pronunciandosi nel merito, la Sezione territoriale ha infatti, dimostrato di non voler annettere alle conclusioni formulate in udienza alcun altro significato se non quello di “orientamento” del giudizio rimesso al collegio giudicante, alla stregua del suo prudente apprezzamento. Tale conclusione consente di superare anche eventuali obiezioni di nullità dell’impugnazione, incentrate sulla possibile violazione dello jus novorum in appello (art. 193 c.g.c.): alcuna nuova domanda potrebbe risultare proposta dalla Procura generale, nell’ipotesi in cui si limiti a reiterare le medesime conclusioni rassegnate nella citazione, sia pure con arricchimento della mera questio juris, qualora vi siano dichiarazioni di segno contrario espresse dal p.m. presente all’udienza di primo grado, inidonee a precludere tale facoltà alla parte pubblica appellante.

Sub 2. Nell’ipotesi in cui sia dedotta in giudizio un’ipotesi di responsabilità per danno indiretto, la previa condanna dell’amministrazione in sede civile o amministrativa, per responsabilità ex art. 28 Cost., costituisce condizione di proponibilità della domanda; una volta verificata tale condizione, il processo contabile rimane del tutto autonomo rispetto agli accertamenti intervenuti inter alios, anche in relazione alla valutazione del principio di causalità espresso nel brocardo latino “causa causae est causa causati”. Se, tuttavia, in astratto, è ben possibile risalire, nella concatenazione degli eventi, alla causa causae, al fine di stabilire l’effettivo concorso alla determinazione dell’evento dannoso ed a suoi effetti pregiudizievoli, di tutti i potenziali co-autori, che, anche nel tempo, abbiano concorso a determinare l’evento dannoso e le relative conseguenza è ben vero che, in concreto, queste ultime soggiacciono al principio di causalità giuridica invocato dall’appellante parte pubblica (ex art. 1223 c.c.), sicché, nella concatenazione degli eventi che caratterizza una singola fattispecie, possono addebitarsi solo le conseguenze dannose che siano di immediata e diretta derivazione dell’evento dannoso. Qualora, pertanto, l’amministrazione comunale sia rimasta soccombente in plurimi giudizi amministrativi, si rende necessario valutare il nesso di derivazione etiologica tra la il danno indiretto dedotto e la condotta degli amministratori e funzionari coinvolti, dovendo selezionarsi soltanto quelle condotte che abbiano effettivamente causato, in via di diretta immediatezza, l’esborso per cui è causa. Nel caso di specie, il danno è conseguenza immediata e diretta soltanto dell’illegittima adozione delle delibere di autotutela, oggetto a loro volta di annullamento da parte dei giudici amministrativi, dalle quali è dipesa la soccombenza in giudizio, l’esborso di denaro a titolo risarcitorio in favore dell’impresa, il riconoscimento del debito fuori bilancio.

Sub 3. Nessuna efficacia esimente assume il parere espresso dal difensore incaricato dall’Ente. Se, infatti, le dichiarazioni di scienza provenienti da professionisti esterni alla compagine amministrativa, possono rappresentare giusta causa di estensione soggettiva della responsabilità, con riparto (virtuale) delle quote di addebito del danno prodotto, non possono, al tempo stesso, considerarsi idonee ex se ad affievolire la colpa da “grave” a “lieve”. Valga, per tutti, il principio espresso dall’art. 1228 c.c. che rende responsabile il debitore, salva diversa volontà delle parti, dei fatti dolosi o colposi imputabili di terzi della cui “opera” ci si avvalga nell’adempimento dell’obbligazione. Continuare a chiedere indirizzi a un professionista legale – che aveva già portato a soccombenza l’ente su delibere palesemente prive dei vizi lamentati – recependone supinamente le indicazioni, appare sintomatico della gravissima superficialità mostrata dagli amministratori che, lungi dal collocarsi su un piano di sostanziale buona fede, ne aggrava assolutamente la posizione. Delle due l’una: o il livello di competenze e di conoscenze in capo al Sindaco e agli assessori era talmente scarso (come pure sostenuto nel corso del processo da taluno dei procuratori costituiti) da indurre a ritenere che la scelta di amministrare la “cosa pubblica” – in un momento che richiedeva, peraltro, elevato acume e senso di responsabilità – sia stata del tutto inappropriata e, dunque, il successivo affidamento all’esterno altro non è stato se non il maldestro tentativo di colmare le lacune di base; oppure gli stessi amministratori hanno consapevolmente condiviso l’improvvido suggerimento riveniente dal professionista esterno, assumendo il rischio dell’esito processuale negativo. In entrambi i casi, sussiste la colpa grave.

Sub. 4 Deve essere esclusa l’applicabilità della disciplina generale di cui all’art. 21 quinquies, l. 7 agosto 1990 n. 241 alla materia del project financing, per la quale vige la disciplina speciale di cui all’art. 153, comma 19, d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 (poi art. 183, commi 12 e 15 del D. Lgs. n. 50/2016), che regolamenta espressamente l’interesse contrattuale negativo, che conferisce il diritto al relativo indennizzo solo in caso di gara nella quale il promotore non risulti aggiudicatario. La mera dichiarazione di pubblico interesse di un progetto spontaneamente presentato dal promotore – che comunque non è un atto durevole ma meramente ed eventualmente prodromico all’indizione di una gara – non costituisce fattispecie di “contatto negoziale qualificato”, tale da legittimare il ristoro dell’interesse contrattuale negativo. Deve, quindi, escludersi che spetti un indennizzo nel caso di revoca della dichiarazione di pubblico interesse del progetto di finanza, non risultando in capo all’interessato una posizione giuridica definitiva, né un rimborso delle spese di gara, che risulta dovuto nel project financing a favore del promotore, solo ove questo non risulti aggiudicatario della concessione quando la gara stessa si sia peraltro conclusa (TAR Lazio, Roma, sez. II, 25 ottobre 2017, n. 10695; TAR Campania, Napoli, sez. II, 10 dicembre 2019, n. 5871). Non sussiste alcuna responsabilità dell’Amministrazione che possa essere fondata sulla mera dichiarazione di pubblico interesse dell’idea progettuale elaborata dal promotore, dal momento che non sussiste alcun obbligo a dare corso alla procedura di gara, essendo libera di scegliere, attraverso valutazioni attinenti al merito amministrativo e non sindacabili in sede giurisdizionale, se, per la tutela dell’interesse pubblico, sia più opportuno affidare il progetto per la sua esecuzione ovvero rinviare la sua realizzazione ovvero non procedere affatto (cfr., tra le tante, Cons. Stato, V, 4 febbraio 2019, n. 820; Id., V, 18 gennaio 2017, n. 207; Id., V, 21 giugno 2016, n. 2719; Id., III, 20 marzo 2014, n. 1365).

Ai fini del decidere, i principi enucleati dalla giurisprudenza amministrativa, sopra sintetizzati, consentono di pervenire alla conclusione che l’amministrazione del Comune lombardo avrebbe ben potuto procedere alla revoca (con effetti ex nunc) della procedura di project financing, senza esporre l’ente ad alcuna pretesa indennitaria da parte dell’impresa, previa rivalutazione dell’interesse pubblica all’espletamento della gara e pur in presenza di atti deliberativi di approvazione dell’idea progettuale elaborata dal promotore. La scelta di procedere in termini di annullamento (con effetti ex tunc) degli atti di approvazione del progetto (e della relativa variante) si profila, pertanto, ancor più improvvida e foriera di un danno pari all’intero importo riconosciuto nelle sentenze dei giudici amministrativi, non potendosi operare alcuna distinzione tra quanto riconosciuto a titolo di danno emergente e quanto attribuito all’impresa vittoriosa a titolo di lucro cessante.

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