Rinegoziazione delle passività finanziarie e golden rule degli enti territoriali

Breve commento al parere della Sezione regionale di controllo per la Campania n. 96/2020/PAR (clicca qui)

di Andrea Luberti

La deliberazione in commento (segnalata in anteprima qui), resa all’esito di un’istanza di parere promanante dalla Regione Campania, merita di essere segnalata per un triplice ordine di ragioni.

In primo luogo, la pronuncia consultiva esamina gli obblighi di rinegoziazione dei contratti in generale, sotto il profilo della disciplina di diritto comune, e, nello specifico, in relazione alla posizione delle pubbliche amministrazioni contraenti di un negozio con causa di finanziamento (acquisizione di cose fungibili con obbligo di restituzione), nella parte attiva come in quella passiva.

Scrutinata in senso positivo l’ammissibilità della questione posta, la Sezione individua allora due distinti presupposti fondanti l’obbligo di “rinegoziazione” nell’ipotesi di sopravvenienza di fattori esogeni che possano sconvolgere l’originario equilibrio contrattuale (con riferimento alle tematiche civilistiche poste dalla questione e ai presupposti della rinegoziazione in generale come rimedi della “crisi” del sinallagma v. F. Macario, voce Revisione e rinegoziazione del contratto, in Enciclopedia del diritto, annali II, tomo II, Milano, 2008, 1026; P. Gallo, voce Rinegoziazione e revisione del contratto, in Digesto delle discipline privatistiche, sezione civile, Torino, 2011, 804 e seguenti)

Mentre per i soggetti di diritto comune tale obbligo viene fatto discendere dal generale principio di buona fede di cui all’art. 1375 c.c., per le pubbliche amministrazioni (parti attive) il relativo dovere costituisce applicazione del principio di “leale collaborazione” quale estrinsecazione (non di quello di buona fede ma) di buona amministrazione.

A ben vedere, comunque, i due principi condividono la radice comune della correttezza nell’agere, nell’uno caso iure privatorum, in quello preso in considerazione nell’esercizio di una potestà pubblicistica. Se la fonte del dovere differisce formalmente, il suo contenuto si trova allora sostanzialmente a coincidere nel senso di imporre ai soggetti beneficiari di tali sopravvenienze, quantomeno, di cooperare nell’interesse della controparte per procedere alla revisione dell’accordo, una volta mutate le condizioni originarie.

In secundis, il parere chiarisce la nozione di “indebitamento”, rilevante per valutare la legittimità dell’operazione nel caso di utilizzazione dei proventi della concessione del credito per finalità diverse da quelle di investimento.

Infatti, in base all’art. 119, comma 6, della Costituzione (ultimo periodo) i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni possono “ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento, con la contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio”.

Si tratta di previsione, pur se indirettamente, attuativa dei vincoli finanziari europei, oggi cristallizzati tra l’altro nell’art. 97, comma 1, della Costituzione con rinvio all’ordinamento dell’Unione europea, che ne condiziona quindi i presupposti applicativi. Infatti, mentre per il sistema pubblico (nel suo complesso) l’indebitamento è consentito nei limiti dell’articolo 81, comma1 1 e comma 2 Cost., per gli enti sopra menzionati vige il vincolo ulteriore (tra l’altro precedente alla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1)

Il concetto di nuovo “indebitamento” è allora illustrato alla luce della disciplina sovranazionale. Di conseguenza, la Sezione dimostra in modo agevole che si è in presenza di nozioni che devono essere esplicitate dal legislatore, salvo il rispetto del limite di ragionevolezza e di adeguamento alla disciplina finanziaria sovranazionale suscettibili di valutazione di costituzionalità (in tal senso, in precedenza, Corte costituzionale, 29 dicembre 2004, n. 425, in Foro italiano, 2006, I, 402)

Per tale ragione, il concetto di “indebitamento” è individuabile quoad effectum nello “scarto negativo che esiste tra le entrate proprie e le uscite necessarie per l’acquisto di beni e servizi”, che determina la necessità di approvvigionamento all’esterno, mentre l’”investimento” consiste nella trasformazione del capitale in beni a utilità pluriennale. Il carattere misto (in parte derivante dalla scienza economica, e in parte frutto di opzioni legislative vincolate anche dalle opzioni di fondo dei vincoli europei) presenta anche un’altra importante conseguenza, che la Sezione non omette di sottolineare.

Difatti, in relazione agli atti (secondari) applicativi della fattispecie legali che prevedono espressamente la ristrutturazione, è precisato che la fonte indicate (, nel caso dell’articolo 45, comma 7, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze) è vincolato a criteri predeterminati di estremo rigore.

Infatti, secondo la Sezione, “il decreto non può decidere arbitrariamente, sulla base di un bilanciamento autonomo di valori o di convenienze, se ed in che misura una revisione costituisca una operazione da attrarre o sottrare nell’alveo del divieto di cui all’art. 119 comma 6 Cost., essendo questa una operazione riservata al Legislatore”, in base al principio di legalità e gerarchia delle fonti.

Il corollario di tale minimale spazio decisorio è rappresentato dalla possibilità per il giudice di disapplicare eventuali atti regolamentari o amministrativi contrastanti con le citate direttive. Nella nozione di “giudice” devono, inoltre, essere ricomprese anche le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, in sede di esercizio del controllo successivo. In tal senso si è espressa sempre la sezione campana con pronuncia 7 febbraio 2020, n. 11, commentata su questo sito a questo link).

Infine, all’esito delle affermazioni sopra commentate, le asserzioni ricevono feconde conseguenze applicative. Esse sono sviluppate in merito alla possibilità di procedere alla ristrutturazione della propria posizione debitoria, dovendo essere valutato non tanto il dato formale rappresentato dall’effetto di indebitamento del negozio “di secondo grado”, quanto l’eventuale aumento della passività finanziaria originaria. Per tale ragione, secondo l’avviso della sezione campana, anche nell’ipotesi in cui l’operazione originaria di indebitamento fosse stata autorizzata espressamente, per finalità diverse dall’investimento, dalla legge, sarà necessario discriminare le ipotesi in cui la rinegoziazione generi “nuovo indebitamento” da quelle che lo lascino invariato o ne determinino addirittura la diminuzione, per cui rimane il solo limite della legittimità del contratto originario, quale “oggetto” della nuova fattispecie negoziale. Tuttavia, in tali ipotesi, laddove la modificazione in peius non sussista, l’originaria espressa autorizzazione legale a contrarre debito in violazione dell’articolo 119, comma 6, della Costituzione, non inficerà la validità del contratto di secondo grado né potrà sottrarre all’obbligo di rinegoziare, in quanto l’illegittimità del titolo originario può essere fatta valere solo previa declaratoria di incostituzionalità della legge ordinaria che tale operazione ha consentito.

Deve essere anche aggiunto che, posta l’astratta validità dell’operazione, resta ovviamente ferma la necessità che la medesima avvenga nel rispetto delle concrete regole di sana gestione finanziaria, anche a pena di responsabilità per l’eventuale danno erariale provocato.

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