Novità sul danno all’immagine

Nota a Corte dei Conti, Sez. Giur. Lombardia, 29 settembre 2020, n. 140 (leggi la sentenza qui) e Corte dei Conti, Sez. Giur. Toscana, 30 settembre 2020, n. 272 ( qui)

Le due recentissime sentenze che qui si commentano “a caldo” si pongono in frontale contrasto riguardo l’incidenza del Codice di Giustizia Contabile riguardo l’istituto del danno all’immagine della pubblica amministrazione e, più in particolare, circa i presupposti di proponibilità della relativa domanda risarcitoria.

Mentre i giudici lombardi offrono una esegesi che si appalesa particolarmente aderente alla novella codicistica cogliendo le novità dallo stesso introdotte, i giudici toscani sembrano “svalutare” il nuovo regime disciplinare tanto da affermare che una norma abrogata espressamente dal Codice (l’art. 7, legge n. 97/2001 che contemplava quali presupposti di proponibilità dell’azione risarcitoria per danno all’immagine la sussistenza di una sentenza penale definitiva di condanna per un reato proprio commesso dal dipendente infedele) continuerebbe ancora a spiegare effetti poiché “incorporata” nella disposizione sul danno all’immagine ancora vigente e che la richiama(va) (trattasi dell’art. 17, comma 30-ter, d.l. n. 78/2009 e s.m.) e dovendosi nella specie parlare di un rinvio c.d. “recettizio”.

Il Collegio lombardo, invece, prende atto dell’avvenuta abolizione del predetto art. 7 e rinviene i nuovi (e, come si vedrà, più ampi) presupposti di proponibilità della domanda risarcitoria per danno all’immagine nell’art. 51, comma 7, c.g.c. ovvero una disposizione del tutto corrispondente all’abrogato art. 7 eccezion fatta per il riferimento ai “reati propri” tanto che la norma codicistica anzidetta contempla, invero, la più ampia categoria dei “delitti commessi a danno” della p.a..

La decisione della Sezione Lombardia giunge alla conclusione appena indicata alla luce del chiaro disposto delle norme transitorie del Codice e, in particolare, l’art. 4, comma 2, All. 3, c.g.c. ai sensi del quale “Quando disposizioni vigenti richiamano disposizioni abrogate dal comma 1, il riferimento agli istituti previsti da queste ultime si intende operato ai corrispondenti istituti disciplinati nel presente codice”.

Ora, come si comprende da una piana lettura di tale ultima richiamata disposizione, le leggi abrogate (dallo stesso Codice) – più in particolare gli istituti dalle stesse contemplati ma che continuano ad essere richiamati da leggi vigenti – diventano norme di rinvio “all’indietro” ovvero di rinvio allo stesso Codice di Giustizia Contabile, a patto che quest’ultimo contenga i “corrispondenti istituti” (previsti dalle leggi abrogate).

In sintesi, l’art. 4, comma 2, All. 3, c.g.c., ai fini della rispettiva operatività, presuppone una sorta di “triangolazione” normativa tra: norme vigenti che richiamano norme abrogate dal Codice ed i cui contenuti (abrogati), qualora contemplati da norme codicistiche con contenuti “corrispondenti”, permettono l’operatività di quest’ultime.

Dunque affinché operi la norma de qua occorre che una norma vigente richiami il contenuto di una norma abrogata dal Codice e qualora detto contenuto abrogato sia presente in una norma codicistica (in un contenuto “corrispondente”) sarà quest’ultima a doversi applicare.

All’evidenza la finalità di detto dispositivo di diritto transitorio è quella di avvertire l’interprete della necessaria “prevalenza” delle disposizioni del Codice ovvero del loro ambire a costituire la meta privilegiata di ogni percorso ermeneutico proprio nei casi di eventuali “conflitti” tra norme.

Ebbene, soffermandosi ancora sulla disposizione di diritto transitorio in parola può subito osservarsi come in effetti il meccanismo da essa contemplato, se applicato alla materia che ci occupa, determina senz’altro, all’indomani della codificazione processuale contabile, l’operatività “meccanicistica” della disciplina codicistica (e più ampliativa) del danno all’immagine.

Nello specifico, infatti, si ha in primo luogo una norma vigente quella dell’art. 51, comma 6, c.g.c. che allorquando richiama i “presupposti di proponibilità dell’azione per danno all’immagine” sta rinviando senz’altro ad una norma abrogata dal Codice stesso e, cioè, l’art. 7, l. n. 97/2001 che, appunto, prevedeva i “vecchi” presupposti (i casi e i modi) della domanda giudiziale risarcitoria, individuandoli nella sentenza penale irrevocabile di condanna per i delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a. .

In secondo luogo, e ciò appare parimenti incontestabile, i presupposti di proponibilità dell’azione per danno all’immagine (i casi e i modi) previsti dalla norma abrogata dal Codice sono oggi senz’altro previsti nel “corrispondente istituto” contemplato dall’art. 51, comma 7, c.g.c., cioè una disposizione del tutto identica all’abrogato art. 7, L. n. 97/2001 eccezion fatta per il riferimento ai delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a. (nell’art. 51, comma 7, c.g.c. si parla, invece, di “delitti commessi in danno” della p.a.).

Si ribadisce: dal combinato dell’art. 51, comma 6, c.g.c. (norma vigente che richiama una norma abrogata ), dell’art. 7, l. n. 97/2001 (norma abrogata dal Codice e richiamata da una norma vigente) e dell’art. 51, comma 7, c.g.c. (norma “corrispondente” alla norma abrogata dal Codice), emerge – in applicazione del meccanismo “triangolare” di rinvio ex art. 4, comma 2, All. 3, c.g.c. – che i nuovi presupposti di proponibilità dell’azione per danno all’immagine devono essere individuati nell’art. 51, comma 7, c.g.c. (dunque non più, soltanto, delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a. ma “delitti in danno” della p.a.).

Potrebbe anche sostenersi che la “norma vigente” sul danno all’immagine che richiama l’istituto abrogato dal Codice sia (oltre l’art. 51, comma 6, c.g.c.) l’art. 17, comma 30-ter, d.l. n.78/2009 e s.m. nella parte (ancora in vigore) in cui richiama(va) anch’esso all’art. 7, l. n. 97/2001: anche in tal caso ed in applicazione del meccanismo di diritto transitorio de quo, detto richiamo all’abrogato art. 7 comporterebbe comunque il rinvio all’indietro all’art. 51, comma 7, c.g.c. ovvero all’istituto “corrispondente” alla disposizione abrogata, richiamato dalla legge vigente.

Pertanto, già da una “meccanica” e pedissequa applicazione alla materia che ci occupa della più volte citata norma transitoria recata dal Codice di Giustizia Contabile – e senza compiere nessuna particolare operazione interpretativa – consegue l’impossibilità di continuare a ritenere vigente, come ben affermato dai giudici lombardi, la disciplina dei “vecchi” presupposti di proponibilità (a pena di nullità) dell’azione risarcitoria per danno all’immagine; “vecchi” presupposti “sostituiti”, per effetto del meccanismo di diritto transitorio, da quelli “corrispondenti” di cui all’art. 51, comma 7, c.g.c..

Ma vi è di più.

Soffermandosi ancora, stavolta da altra prospettiva, sul meccanismo di diritto transitorio e di rinvio in parola può affermarsi che lo stesso “trasfigura” in norme “strumentali” – ovvero norme di “rinvio all’indietro” al Codice – tutte quelle disposizioni abrogate dalla codificazione.

In sintesi: poiché la norma abrogata (richiamata dalla norma vigente) consente l’operatività della disciplina codicistica – a patto che la norma abrogata contenga un istituto “corrispondente” a quello introdotto dal Codice – ne deriva che detta norma abrogata dal Codice viene a perdere la sua originaria funzione normativa di “disciplina” sostanziale e/o processuale di un certo istituto, per diventare una mera norma “strumentale” di rinvio alla normativa codicistica erariale.

Di qui, pertanto, l’irragionevolezza della tesi dei giudici toscani secondo cui per effetto di una predicata “incorporazione” dell’abrogato art. 7, L. n. 97/2001 nelle norme vigenti, detto art. 7 costituirebbe ancora l’attuale disciplina sostanziale/processuale del danno all’immagine.

In realtà le norme abrogate dal Codice (nello specifico l’art. 7, l. n. 97/2001) se continuano a svolgere una funzione all’indomani della codificazione questa può essere soltanto quella di essere “strumentali” alla piena applicazione della codificazione stessa e sempre a patto che i contenuti contemplati da dette disposizioni abrogate siano contemplati in “corrispondenti” norme codicistiche.

Infine, il ritenere che i presupposti del danno all’immagine siano quelli di cui all’art. 51, comma 7, c.g.c. – e non più quelli (abrogati) di cui all’art. 7, L. n. 97/2001 – porta a tre considerazioni conclusive.

In primo luogo non appare convincente quanto si legge altresì nella sentenza del Collegio toscano ovvero che “il legislatore delegante non ha inteso conferire una delega al Governo utile ad assicurare una revisione sostanziale della fattispecie del danno all’immagine, ma ha voluto delegare unicamente il “riordino e (…) ridefinizione della disciplina processuale concernente (…) i giudizi che si svolgono innanzi alla Corte dei conti”. Il legislatore delegante, infatti, ha voluto delegare al Governo soltanto il riordino della disciplina processuale applicabile ai giudizi innanzi alla Corte dei conti, senza voler procedere ad alcuna innovazione di natura sostanziale e, segnatamente, ad una riforma in senso ampliativo della disciplina del danno all’immagine”.

In realtà se tutto il ragionamento sul danno all’immagine all’indomani della vigenza del Codice di Giustizia Contabile avesse preso le mosse dall’art. 51, comma 6, c.g.c. – disposizione che, come invece sopra visto, “attiva” il meccanismo di diritto transitorio ex art. 4, comma 2, All. 3, c.g.c. – si sarebbe giunti alla (diversa) conclusione che la riforma della materia de qua si iscrive pienamente nell’alveo del diritto processuale (e non sostanziale) poiché il legislatore ha ri-codificato i presupposti, a pena di nullità, per la proponibilità “dell’azione per danno all’immagine”.

D’altronde già le Sezioni Riunite della Corte dei Conti, nell’analizzare i “vecchi” presupposti dell’azione risarcitoria in parola, anche all’epoca previsti a pena di nullità, ne aveva affermato la loro attrazione ad un ambito diverso dal diritto sostanziale statuendo che “ … la nullità in esame si connette ad un difetto di legittimazione sostanziale (diritto potestativo) del P.M. a svolgere le sue funzioni requirenti; difetto cui consegue la nullità degli atti giuridici compiuti in difetto di potere, tanto in fase preprocessuale (sostanziale in senso lato), quanto in fase di giudizio (processuale)[1].

In secondo luogo avendo il legislatore congegnato un meccanismo di diritto transitorio di carattere generale[2] ai fini del passaggio dai “vecchi” ai “nuovi” istituti processuali contabili (il più volte citato art. 4, comma 2, All. 3, c.g.c.) può pianamente affermarsi che quest’ultimi – cioè gli istituti codicistici nuovi “corrispondenti” a quelli disciplinati dalle norme abrogate e divenute ex lege norme di rinvio – sono di immediata applicazione.

Come noto, infatti, in presenza di norme di diritto transitorio – come nel caso di specie – non v’è ragione di interrogarsi sul carattere sostanziale o processuale delle nuove disposizioni ai fini di stabilire l’immediata applicabilità delle stesse[3].

In terzo luogo – e conclusivamente – occorre verificare, in concreto, quali siano i confini di operatività del nuovo danno erariale all’immagine alla luce della proposta interpretativa esplicitata nelle presenti pagine e laddove il riferimento ai presupposti di proponibilità dell’azione risarcitoria è ai “delitti commessi a danno” della p.a., dunque non più e soltanto ai “reati propri”.

Al riguardo può notarsi che i giudici toscani, pur avendo escluso, come visto, che i nuovi presupposti del danno all’immagine potessero rinvenirsi nell’art. 51, comma 7, c.g.c., si soffermano purtuttavia – verosimilmente consapevoli della “problematicità” della tesi della “incorporazione” – proprio su detta ultima disposizione ritenendo che la stessa faccia (comunque) riferimento ai delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a. al pari dell’abolito art. 7 più volte citato.

Si legge nella sentenza del Collegio toscano, infatti, che “Come noto, il delitto “ a danno” di qualcuno consiste nella effettiva compromissione del bene di volta in volta tutelato dalla norma; in armonia con quanto previsto nel nostro ordinamento, sono delitti commessi in danno dell’amministrazione pubblica, unicamente i delitti di cui al capo I, titolo II, libro II del codice penale, rubricato “Dei delitti contro la Pubblica amministrazione””; conclusione, però, abbastanza opinabile sia perchè mal si concilia con l’avvenuta abrogazione proprio dell’art. 7, l. n. 97/2001 il quale, questo sì, faceva espresso riferimento ai delitti di cui al capo I, titolo II, libro II del codice penale; sia perché anche al di fuori dei reati propri sono senz’altro configurabili altre ipotesi delittuose e “dannose” per le quali, ad esempio, può ammettersi la costituzione di parte civile della p.a. nel processo penale (pensiamo ad una truffa ai danni dello Stato).

Ma al riguardo si ritiene, invece, che possano condividersi le conclusioni cui è giunta un’attenta dottrina che ha prospettato una duplice opzione ermeneutica riguardo la dicitura “delitti commessi a danno” della p.a..

Un prima soluzione, nel dettaglio, potrebbe consistere nel considerare “a danno” quei delitti nei quali il bene giuridico tutelato afferisce all’amministrazione come persona giuridica, alla sua organizzazione o agli interessi alla cui cura essa è preposta: oltre “ai delitti contro la pubblica amministrazione, si potrebbero includere, di volta in volta, fattispecie ricomprese tra i delitti contro la personalità dello Stato, contro l’amministrazione della giustizia, contro la fede pubblica, contro l’economia pubblica, contro il patrimonio, in materia tributaria e così via[4].

Evidenzia lo stesso Autore di tale impostazione, tuttavia, che si tratterebbe “… di un criterio di selezione astratto, in quanto, essenzialmente, incentrato sulla qualificazione del fatto compiuta dal giudice penale e sulla individuazione del bene-interesse protetto dal reato accertato. Esso, per di più, oltre a scontare intuibili margini di opinabilità (a discapito delle esigenze di prevedibilità e di garanzia che la delimitazione dovrebbe soddisfare), rischia di escludere il risarcimento del danno all’immagine quando il bene giuridico non afferisce direttamente alla pubblica amministrazione, sebbene il fatto le abbia arrecato disdoro[5]

Di qui, allora, una seconda e maggiormente preferibile soluzione interpretativa che riguardo all’espressione “delitti in danno” della p.a. di cui all’art. 51, comma 7, c.g.c. porterebbe ad attribuire una valenza eterogenea a tutti gli elementi normativi impiegati nella formulazione della norma predetta di talchè “… mentre la commissione di “delitti” e il suo accertamento con “sentenza irrevocabile di condanna” assumerebbero rilievo ai fini della proposizione della domanda, integrando, rispettivamente, i “casi” e i “modi” … in cui la stessa è consentita, il fatto che tali delitti siano stati commessi “a danno” dell’amministrazione verrebbe in considerazione unicamente ai fini del merito della controversia”[6].

In altre parole, si soggiunge, l’azione per il risarcimento del danno all’immagine potrebbe essere proposta ogni qual volta un dipendente pubblico sia stato condannato in via definitiva per un fatto costituente delitto (sia contro l’amministrazione, nel senso anzidetto, sia contro altri beni giuridici, restando esclusi i soli fatti contravvenzionali) e “… verificati questi presupposti di proponibilità della domanda, il giudice dovrebbe accertare, nel merito, se il fatto oggetto della condanna penale sia stato commesso “a danno” dell’amministrazione, ossia se abbia effettivamente pregiudicato l’immagine di quest’ultima. Così inteso, il riferimento al “danno”, apparentemente pleonastico, avrebbe l’effetto di ribadire il principio che il pregiudizio all’immagine dell’amministrazione dev’essere provato nella sua effettiva sussistenza”[7].

Soluzione, quest’ultima, che si lascia senz’altro preferire poichè da un lato permetterebbe di ritenere assolta in modo adeguato la funzione della norma di circoscrivere i casi di risarcibilità del pregiudizio in questione, pur sempre limitati alle sole condotte delittuose sanzionate in via definitiva dal giudice penale; dall’altro, consentirebbe “… di risolvere il paradosso di ammettere, o meno, l’azione risarcitoria a seconda della tipologia di reato, con le incongruenze più volte rappresentate dalla Corte dei conti nelle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale[8].

  1. Corte dei Conti, SS.RR. in sede giurisdizionale, 3 agosto 2011, n. 13/QM/2011.
  2. Il carattere “generale” del meccanismo di diritto transitorio prescelto dal legislatore, seppure un po’ farraginoso, spiega, verosimilmente, il perché non sia stata operata una riforma “particolare” del danno all’immagine.
  3. La presenza di “… un’esplicita disciplina transitoria priva di rilevanza esclusiva il riferimento alla natura processuale degli atti per risolvere le questioni di diritto intertemporale” (Cass. Civ., SS.UU., 9 maggio 2016, nn. 9341, 9285 e 9284).
  4. A. IADECOLA, La Corte costituzionale e il danno all’immagine dell’amministrazione prima e dopo il codice di giustizia contabile, cit..
  5. A. IADECOLA, La Corte costituzionale e il danno all’immagine dell’amministrazione prima e dopo il codice di giustizia contabile, cit..
  6. A. IADECOLA, La Corte costituzionale e il danno all’immagine dell’amministrazione prima e dopo il codice di giustizia contabile, cit..
  7. A. IADECOLA, La Corte costituzionale e il danno all’immagine dell’amministrazione prima e dopo il codice di giustizia contabile, cit..
  8. A. IADECOLA, La Corte costituzionale e il danno all’immagine dell’amministrazione prima e dopo il codice di giustizia contabile, cit..

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