Pronuncia n. 110/2018/PRSP depositata in data 3 ottobre 2018 e n. 172/2019/PARI depositata in data 30 luglio 2019 – est. Sucameli; Pres. Longavita
PRINCIPALI QUESTIONI AFFRONTATE:
A) sindacabilità in parifica delle coperture, in termini di saldi, senza passare da questione di costituzionalità. Questo ha portato la Sezione ad elaborare un nuovo tipo di pronuncia c.d. “non parifica tecnica”, premessa di una successiva questione di costituzionalità in sede di bilancio previsionale, nonché, per il Governo in sede “politica”. Si segnala anche la “parifica con riserva” che equivale alle sentenze monito della Corte costituzionale;
B) interpretazione del sistema sui limiti all’applicazione delle quote vincolate in caso di disavanzo, con il favor, però, per gli investimenti;
C) sindacabilità della spesa dei centri di spesa di secondo livello (q.l.c sulla spesa del personale del consiglio regionale. Oggi il Consiglio, domani un qualsiasi altro ente strumentale);
D) riunione dei giudizi, che ha reso necessaria una profonda riflessione su natura, oggetto, ed effetti del giudizio di parifica.
Sommario dei principi di diritto: 1. La riunibilità dei giudizi; 1.1. Oggetto ed effetti nonché funzione della parificazione; 1.1.1. Il rendiconto come “conto dei conti”: l’effetto certativo; 1.1.2. Il rendiconto come espressione ed articolazione dinamica del “bene pubblico” bilancio: effetto “prescrittivo” della rendicontazione e precetto dell’equilibrio; 2. Sulla differenza tra regola del pareggio e clausola generale dell’equilibrio; 3. Sui diversi “tipi” di disavanzo. Disavanzi “ortodossi” ed “eterodossi” piani straordinari di rientro; 4. L’obbligo (di diritto pubblico) di rientro dal disavanzo. Obiettivi “dinamici” (e “di mezzi”, a previsione) e “statici” (e “di risultato”, a consuntivo), 4.1. L’obbligo di rientro come obbligo di “risultato” entro un tempo definito. La regola (generale) del ribaltamento del disavanzo non recuperato nell’esercizio successivo; 4.2. L’imputazione del recupero ai vari “disavanzi” nella successione tra più esercizi dagli esiti altalenanti; 4.3. Il carattere prescrittivo del prospetto sulla composizione e recupero dei disavanzi; 5. La nuova copertura qualificata delle leggi di spesa imposta dal D.lgs. n. 118/2011 (la sostenibilità finanziaria)… ; 5.1. … e il conseguente limite all’applicazione delle quote vincolate. La distinzione tra “disavanzo” ed il c.d. “saldo contabile primario”; 5.2. La menomazione della funzione recuperatoria del disavanzo nell’era degli spalma-debiti e i conseguenti limiti all’applicazione delle quote vincolate; 6. La sindacabilità delle coperture in sede di giudizio di parifica Effetti transitori e permanenti della legge di previsione e la “non parifica tecnica”; 7. La natura del “rischio” assicurato dal Fondo crediti dubbia esigibilità (FCDE) e la non abbattibilità del monte residui finali da svalutare in base a tardive riscossioni; 8. Il Riaccertamento ordinario, la presunzione di inesigibilità o di esistenza dell’obbligazione e la sua motivazione; 9. Residui attivi verso la pubblica amministrazione. L’applicazione dei criteri tradizionali di stralcio, ante D.lgs. n. 118/2011; 10. Il Fondo rischi (FR) con funzione rappresentativa degli equilibri effettivi, in ragione di debiti fuori bilancio; 11. La cassa delle regioni è anch’essa soggetta a vincoli; 12. Il sistema sanitario come sistema derogatorio alla competenza finanzia potenziata e all’obbligo di costante verifica della sostenibilità finanziaria: gli impegni tecnici di destinazione a tutela dei LEA; 12.1. Ritardato accredito ed accertamenti di risorse destinate da arte dello Stato. Impegni a “sfondamento” dell’autorizzazione di spesa della legge regionale; 13. La sindacabilità della spesa di secondo livello (degli organi strumentali con separato bilancio). Questione di legittimità costituzionale per la spesa per il trattamento accessorio per il personale del Consiglio regionale.
1. La riunibilità dei giudizi. La trasmissione di ciascun rendiconto, infatti, inteso come scrittura contabile e non atto interno di un procedimento legislativo, determina l’instaurazione del “giudizio” di parifica.
Il giudizio di parificazione è un «giudizio che ha, ad oggetto, il rendiconto come documento degli equilibri e, a parametro, norme che sono poste a diretta tutela del rispetto sostanziale degli equilibri nel tempo; di conseguenza gli accertamenti della decisione di parifica costituiscono un modello di conformità a legge e Costituzione che rendono, per l’effetto formale di giudicato connesso alla decisione, di per sé “non manifestamente infondato” il dubbio di costituzionalità: a) della legge sul bilancio di previsione (approvazione e variazioni); b) nonché della legge di approvazione del rendiconto che non tenga conto dei dicta accertativi della Corte dei conti e che con essi si pongano in palese contraddizione.
Non si tratta dunque di un internum corporis del provvedimento legislativo di approvazione del rendiconto, ma di un giudizio basato su parametri strettamente giuridici, che riguarda scritture giuridico-contabili, analitiche e sintetiche, formatesi ad opera dell’amministrazione e che costituiscono la premessa di un atto di un altro potere dello Stato e/o della Repubblica».
La causa generata da ciascun rendiconto, infatti, è la verifica della conformità al fatto e al diritto della rappresentazione contabile dei fatti di gestione. Poiché, “la contabilità̀ a due distinte annualità”, espressa nei due disegni di legge di rendiconto presentati dalla Giunta della Regione Campania, “rappresenta sezioni di flusso inscindibile di un medesimo fenomeno”, il Magistrato istruttore ne ha curato l’esame congiunto, seguendo nel secondo di essi gli esiti degli accertamenti del primo. Trattandosi, inoltre, di “causa comune” dei due distinti giudizi instaurati, ne ha altresì richiesto la riunione, richiesta che è stata accolta con “ordinanza a verbale”, “pronunciata in udienza” (ex artt. 38 e 40 c.g.c), dal Sig. Presidente della Corte dei Conti.
La riunione è stata ritenuta possibile in base all’art. 84 c.g.c., da considerare “espressione del generale principio di economia degli atti del giudizio”, volto “non solo ad evitare contrasti tra giudicati, ma anche [la soddisfazione di] esigenze di brevità̀ e tempestività̀ del giudizio, [da riguardare come] parte coessenziale della giustizia di qualsiasi processo”.
1.1. Oggetto ed effetti nonché funzione della parificazione. Il giudizio di parificazione ha assunto una nuova conformazione oggettiva e funzionale nel contesto dei valori della contabilità pubblica, segnati dagli art. 2, 3, 81, 97, 117, 119 e 120 della Carta Costituzionale. Relativamente all’oggetto, il giudizio di parificazione risente della “palingenesi” subita dal rendiconto generale delle regioni, che dalla sua “concezione atomistica” di semplice “conto di conti”, sul quale il giudizio stesso operava il “mero confronto con la contabilità analitica sottostante” (C. cost. sent. n. 121/1966 e n. 142/1968), è passato ad una concezione “olistica”, quale “strumento sintetico di evidenza degli equilibri nella continuità di bilancio, in connessione con la programmazione successiva”.
1.1.1. Il rendiconto come “conto dei conti”: l’effetto certativo. Detto in altri termini, il primo oggetto del giudizio di parifica è il “conto” e la sua conformità con le scritture analitiche sottostanti e in ultimo con il fatto gestionale rappresentato. In tale qualità, il rendiconto è una scrittura contabile complessa di terzo grado che muove da una contabilità analitica (in forma di registrazione contabili periodiche, scrittura contabili di secondo grado) e dalle c.d. pezze giustificative (documenti contabili di primo grado). Vista da questo angolo visuale la rendicontazione ha la natura di una dichiarazione di scienza in ordine ad una serie complessa di fatti ed ha la funzione di «riassumere e dimostrare “i risultati della gestione”, sia per gli aspetti propriamente finanziari (cosiddetto “conto del bilancio”), sia per gli aspetti propriamente patrimoniali (cosiddetto “conto generale del patrimonio”) [oggi Stato patrimoniale]» (Corte costituzionale sentenza n. 142/1968). Ne consegue che un primo effetto giuridico della rendicontazione (e del giudizio di parificazione) è conferire “certezza” a tali rappresentazioni documentali, considerando “provati” i fatti che ne sono oggetto.
Il giudizio di parificazione, dunque, per questo primo aspetto (effetto “certativo”), è
– un giudizio di fatto, con il quale si effettua un raffronto tra la scrittura di terzo grado e dei suoi saldi (il rendiconto), con quelle di secondo e primo grado. Tali scritture e documenti sono essenziali al giudizio e non possono essere sottratti, in termini istruttori, alla Corte dei conti, pena l’impossibilità del giudizio e l’esito della non parificazione, non essendo possibile, nel nostro ordinamento, una pronuncia di non liquet. Il giudice deve vagliare, altresì, la conformità del conto alla realtà e, all’esito del giudizio di parificazione, con il suo accertamento, far sì che le scritture contabili costituiscano giudizialmente “prova” dei fatti gestionali e base storica attendibile della successiva programmazione;
– un giudizio di diritto, nella misura in cui accerta la conformità di tale rappresentazione a degli standard che fissano la tecnica di tale rappresentazione (la contabilità pubblica).
1.1.2. Il rendiconto come espressione ed articolazione dinamica del “bene pubblico” bilancio: effetto “prescrittivo” della rendicontazione e precetto dell’equilibrio. Il carattere normativo e prescrittivo della rendicontazione si comprende solo se si considera la stretta interconnessione funzionale che esiste, nella contabilità pubblica e finanziaria (presupposta dagli artt. 100 e 103 Cost.), tra rendicontazione e bilancio di previsione: è questa connessione che consente di definire i margini della spesa autorizzabile nella continuità della amministrazione e quindi i vincoli concreti alle decisioni di bilancio
Un siffatto sistema, consente di individuare nel bilancio un “bene pubblico”, nel senso che il bilancio è l’atto normativo attraverso cui si evidenziano una serie di utilità pubbliche: dal punto di vista sostanziale, esso è in grado di porre in relazione mezzi e fini, rendendo quest’ultimi effettivi, dal punto di vista procedurale, in base all’imputazione della competenza alla sua adozione ad organi rappresentativi degli stakeholders, al carattere suo autorizzatorio nonché in base alla disciplina che ne presidia la veridicità e la trasparenza, consente di qualificare l’intima natura democratica dello Stato costituzionale. Infatti, tramite la veridicità e la trasparenza della rendicontazione è possibile l’accountability, la c.d. contabilità di mandato, (cfr. C. Cost. n. 49/2018) che è espressione di un più generale diritto (strumentale) e costituzionale alla trasparenza, tramite cui è possibile esercitare in pienezza i diritti democratici.
Più dettagliatamente, il bilancio come bene pubblico è costituito dal complesso sistema di prescrizioni normative e dalle concrete decisioni di bilancio che assicurano varie utilità di rilevanza giuridica, dalla trasparenza e sindacabilità dell’operato dei propri rappresentanti (C. Cost. n. 49/2018), alla concreta erogazione e funzionalità di funzioni e servizi delle varie articolazioni della Repubblica spesso collegati ai LEP (art. 117, 2° comma lett. m e 120 comma 2° Cost). Questa “utilità pubblica”, è collegata ad interessi finanziari ora adespoti, ora soggettivizzati in enti rappresentativi, collettivi o singoli cittadini che possono precedere la stessa decisione di bilancio. Infatti, è «la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione» (Corte costituzionale, sentenza n. 275/2016).
Queste prescrizioni normative concorrono e convergono, in base al principio di legalità, sulla decisione concreta di bilancio-bene pubblico (artt. 81 e 97 cost.), «nel senso che è funzionale a sintetizzare e rendere certe le scelte dell’ente territoriale, sia in ordine all’acquisizione delle entrate, sia alla individuazione degli interventi attuativi delle politiche pubbliche, onere inderogabile per chi è chiamato ad amministrare una determinata collettività̀ ed a sottoporsi al giudizio finale afferente al confronto tra il programmato ed il realizzato» (Corte Cost., sentenza n. 184/2016, )
In quest’ottica, il rendiconto è un’articolazione dinamica della decisione di bilancio, intesa come strumento normativo e amministrativo attraverso cui viene definita la relazione tra “fini” e “mezzi” (finanziari) di cui un ente dispone, una decisione che deve quindi essere conforme ad un sistema complesso di prescrizioni normative, talvolta di rango costituzionale, altre volte legislativo, altre volte di tipo amministrativo. Il bilancio è un bene pubblico, quindi, perché, in sede di programmazione, assicura l’effettività dei fini fissati a valle del processo democratico e perché, in sede di rendicontazione, consente di verificare l’“accountability dei propri rappresentanti in ordine alla realizzazione dei programmi che quei fini realizzano (art.1 e 97 Cost.), verificando lo stato degli equilibri generali (misurando le risorse accumulate o il disavanzo da recuperare) e la situazione realizzativa degli obiettivi di spesa (spesa vincolata) .
Per tale ragione, accanto alla citata funzione probatorio-documentale e “certativa” del fatto e del diritto, il rendiconto generale ed il giudizio di parificazione hanno un effetto “prescrittivo”, nel senso che determina i limiti e gli obblighi del successivo comportamento in sede previsionale.
Si tratta di un effetto tipico della contabilità finanziaria: esso definisce i saldi ed innesca l’obbligo (costituzionale) immediato di conformare la successiva legge sul bilancio di previsione, pena l’illegittimità della stessa, emendabile solo con una pronta variazione di dello stesso che sia in grado di ripristinare l’equilibrio che risulta accertato come “perturbato” da fattori quantificati in sede di rendicontazione.
Ciascuna decisione di bilancio, infatti, si inserisce in un flusso continuo di fatti di gestione che si dipanano nel tempo e che attraverso le scritture contabili vengono prima previsti e poi rendicontati. Sia le previsioni (che con riguardo alla spesa, in contabilità pubblica, hanno natura autorizzatoria), che le rendicontazioni (nei termini in cui la misurano l’equilibrio positivo o negativo di bilancio), hanno un contenuto normativo che si riconduce al precetto fondamentale dell’equilibrio, secondo cui vi deve essere un «armonico e simmetrico bilanciamento tra risorse disponibili e spese necessarie per il perseguimento delle finalità pubbliche» (sentenza n. 250/2013).
Esattamente come il diritto non può non essere ragionevole, il bilancio, qualsiasi bilancio non può non essere in equilibrio (come la stessa etimologia dell’istituto evoca) ed è questa la ragione per cui tale precetto costituisce la misura stessa della ragionevolezza delle prescrizioni giuridiche che riguardano il bilancio e, poi, dei suoi contenuti adottati con legge o con atto amministrativo (SRC Campania n. 107/2018).
Alla luce di tale precetto, in contabilità finanziaria esiste una continuità temporale e funzionale inscindibile tra previsione e rendicontazione: se da un lato il bilancio di previsione autorizza la spesa sulla base delle risorse che si presumono disponibili o si prevede di prossima disponibilità, il rendiconto deve quantificare le risorse effettivamente disponibili per le successive programmazioni (nella contabilità degli enti territoriali il cd. “avanzo di amministrazione”) o la misura del passivo da recuperare (nella contabilità degli enti territoriali espresso dal “disavanzo di amministrazione”) nella successiva gestione del bilancio. Nella contabilità finanziaria, dunque, la rendicontazione ha un contenuto normativo-prescrittivo e, definendo la misura del riequilibrio, è titolo per la successiva programmazione, in caso di risultato negativo, o delle risorse utilizzabili, in caso di risultato positivo.
Tale capacità prescrittiva, peraltro, dipende dalla “validità” della rendicontazione in relazione ad un complesso sistema di norme il cui rispetto è oggetto del giudizio di parificazione. In quest’ottica le norme in materia di rendicontazione di cui alla L. n. 243/2012 e il D.lgs. n. 118/2011 non sono solo “norme formali sull’esposizione contabile”, al mero servizio del principio di verità e certezza dei fatti contabili, ma sono strumento sostanziale di verifica degli equilibri di bilancio ex art. 81 Cost. (Corte costituzionale sent. n. 279/2016); in questo senso, sebbene non in senso formale, esse svolgono il ruolo logico di “legge organica” in materia contabile (così C. Costituzionale sent. n. 49/2018). Ciò in quanto tali fondamenti atti normativi costituiscono: a) da un lato, “norme sulla normazione”, cioè fonti logicamente preminenti nel giudizio di validità di un altro atto normativo (ovvero la legge di rendiconto); b) norme che, sebbene formalmente non sovraordinate alle leggi ordinarie, svolgono la funzione di parametro interposto di un eventuale giudizio di costituzionalità delle norme statali e regionali che approvano bilanci e consuntivi. Le norme sulla rendicontazione sono dunque le norme che concorrono a definire le fattispecie di violazione del precetto dell’equilibrio e a definire qualità e quantità del riequilibrio (rectius, delle connesse “misure correttive o “di salvaguardia”) con effetto sugli esercizi futuri.
2. Sulla differenza tra regola del pareggio e clausola generale dell’equilibrio. Il rendiconto costituisce, dunque, un elemento di definizione degli equilibri che in sede di bilancio di previsione erano solo presunti. Il risultato di amministrazione, quindi, una volta accertato in sede di rendiconto, impone una correzione di bilancio ai sensi dell’art. 10, comma 2 D.lgs. n. 118/2011 (sulle grandezze definite in base all’art. 39, comma 7, lett. b) e c) del D.lgs. n. 118/2011, prima del rendiconto).
Peraltro, il comma 12 del citato art. 42, con una disposizione speciale precisa che l’eventuale disavanzo di amministrazione, per garantire la sostenibilità può anche essere ripianato negli esercizi considerati nel bilancio di previsione, in ogni caso non oltre la durata della legislatura regionale, contestualmente all’adozione di una delibera consiliare avente ad oggetto il piano di rientro nel quale siano individuati i provvedimenti necessari a ripristinare il pareggio. In buona sostanza, il pareggio ha un orizzonte che normalmente coincide con l’esercizio finanziario, l’equilibrio un orizzonte più ampio, che tende a coincidere con il periodo della programmazione del bilancio stesso.
Sussistono peraltro norme che consentono di superare tale orizzonte, accedendo a periodo di rientro decennale o addirittura trentennale (cfr. ad es. art. 3, commi 13 e 16 del D.lgs. n. 118/2011; art. 9, comma 5, D.L. n. 78/2015).
È in queste norme speciali o eccezionali sui tempi di rientro, nonché nelle norme che introducono il sistema di accantonamenti e vincoli riportabili in esercizi successivi che si consuma la differenza tra pareggio ed equilibrio di bilancio.
Mentre il primo costituisce una “regola” che impone un’equivalenza contabile tra entrate e spese in ogni esercizio contabile, il precetto dell’equilibrio costituisce una “clausola generale” che consente: a) di inserire la gestione nella continuità di bilancio (Corte Cost., sent. n. 1/1966), allargando l’orizzonte temporale e rendendolo “tendenziale”, nel duplice senso che va verificato anche in corso di gestione e che è ammesso deficit ed indebitamento purché siano “sostenibili” (cioè sia possibile il rientro dagli stessi) in relazione alla struttura numerica (economica, finanziaria, patrimoniale) del bilancio e delle ragioni e allo scopo che hanno determinato lo stesso; b) consente di configurare, sul piano dei saldi, una serie di sotto-rapporti tra entrate e spese, al fine di realizzare il “buon andamento” della pubblica amministrazione art. 97 Cost. (sistema dei vincoli e degli accantonamenti).
Le deroghe all’orizzonte temporale annuale, sono norme speciali quando dal pareggio consentono di ragionare sul concetto di equilibrio della programmazione, nell’ambito dell’unità di tempo complessivamente considerata dal bilancio medesimo (ad oggi, si rammenta, triennale). In tale caso la norma del pareggio si “specializza” in termini di fattispecie, declinandosi in equilibrio, ma allo stesso tempo diventa norma generale per attrazione e coerenza con lo standard minimo di coerenza tra risorse e spese richiesto al bilancio dalla Costituzione, vale a dire, nella misura in cui le quantità rispondono alla “clausola generale” di equilibrio sancita dalla nostra Legge fondamentale (art. 97, comma 1 Cost.)
Si tratta invece di vere e proprie deroghe nel caso in cui l’orizzonte temporale del bilancio viene superato per «fronteggiare un problema non circoscritto [al singolo ente, ma di tipo sistemico, a fronte di] disavanzi emersi [che] non possano essere riassorbiti in un solo ciclo di bilancio ma richiedano inevitabilmente misure di più ampio respiro temporale» (sent. n. 107/2016). Per tale ragione esse vanno considerate «una tassativa eccezione alla regola del pareggio di bilancio ed, in quanto tal[i], risulta[no] di strettissima interpretazione ed applicazione» (sentenza n. 6/2017).
In tali casi, si tratta di norme eccezionali, in deroga alla regola prima del pareggio e poi dell’equilibrio. Pertanto, dal punto di vista normativo-costituzionale, la deroga deve essere giustificata dalla natura della causa e dalla dimensione del deficit emerso, e per il principio di eguaglianza di fronte alla legge, essere motivate e rispondere ad esigenze generali, non a situazioni concrete che riguardano o possono riguardare esclusivamente l’ente (cfr. sentt. n. 279/2016, n. 6/2017 e n. 107/2016 e da ultimo la sent. n. 274/2017); dal punto di vista interpretativo, inoltre, tali deroghe devono essere considerate norme di “strettissima interpretazione” (Corte costituzionale, n. 6/2017, punti §§ 4.1. e 5 in diritto).
Il precetto dell’equilibrio, inoltre, non solo consente il recupero di disavanzi in un’ottica pluriennale, ma permette di introdurre correttivi al precetto del pareggio, sub specie del corollario della unità di bilancio. Senza contraddire l’assunto di base secondo cui ciascuna entrata continua a finanziare indistintamente la spesa (principio di unità), esso consente, nella continuità di bilancio, di agire sui saldi di fine esercizio (sistema dei fondi) per : a) destinare parte delle risorse accumulate a determinati scopi o alla copertura da denominati rischi ovvero (applicazione avanzo) b) conclamare, prima che si effettui la spesa o si realizzi il rischio, l’insufficienza delle risorse finanziarie presenti in bilancio (crediti e cassa), evidenziando la necessità di recuperare un deficit. In questo modo non solo il recupero dello squilibrio, ma anche la copertura della spesa assume una dimensione diacronica e dinamica.
Tale funzione, anche in termini di efficacia dell’azione amministrativa (precostituendo e garantendo la copertura di spesa “finalizzata”), è garantita, nell’ambito del bilancio degli enti territoriali, dalla struttura e dalla funzione svolta dal risultato di amministrazione nel sistema (D.lgs. n. 118/2011).
In definitiva, mentre il pareggio è una “regola” a fattispecie determinata e ragionieristicamente conchiusa nell’equivalenza tra entrate e spese in un dato esercizio finanziario, il precetto dell’equilibrio è una “clausola generale”.
Secondo una definizione piuttosto condivisa, con “clausola generale” ci si riferisce ad una norma a “fattispecie aperta” cioè non tassativa, che non solo contiene concetti “indeterminati” (che rinviano ad altre norme e fonti), ma che si connotano per essere “esterni” rispetto all’ordinamento giuridico e “complessi”, in quanto rinviano a standard soggetti ed evoluzione storica e/o scientifica (si pensi alle numerose norme, correlate al diritto amministrativo, a proposito del valore “artistico” dei beni). Le “clausole generali”, quindi, si possono distinguere dalle “norme generali”, le quali, a differenza delle clausole generali, usano concetti indeterminati “interni”, sebbene talvolta egualmente complessi: l’interprete deve rintracciare il significato normativo nello stesso ordinamento giuridico in base ad un principio di coerenza interna e spesso il concetto di riferimento, essendo di tipo dogmatico, è frutto di analoghe evoluzioni (si pensi al concetto di “danno” e di “patrimonio” presupposto dall’art. 2043 del codice civile; costituisce una clausola generale, per contro, la norma sull’abuso di posizione dominante che si rifà a concetti tecnici che quindi presuppongono la perizia del fatto). Il precetto costituzionale dell’equilibrio è, secondo la Corte costituzione, una “clausola generale”: a) perché non rinvia ad un concetto di senso comune e determinato, ma ad un concetto tecnico che si basa su uno statuto scientifico articolato, proprio di una scientia artis; b) perché l’elemento tempo, nella sua fattispecie, necessario a realizzare la proporzione tra risorse e obiettivi, non è fissato in modo espresso, ma in modo variabile a seconda delle finalità cui le declinazioni legislative del precetto possono rispondere, nell’ottica della continuità dell’amministrazione, della solidarietà intergenerazionale, dell’efficacia dell’azione della pubblica amministrazione, nonché della gestione di eventuali emergenze di sistema o di politiche anticicliche (fermo restando il limite “interno” dello stesso concetto di equilibrio che è la della “sostenibilità del debito”).
È la Corte costituzionale ad adoperare scientemente tale qualificazione aggiungendo, la ridetta “clausola generale” è «in grado di operare pure in assenza di norme interposte» (C. Cost., sent. n. 192/2012): si tratta della Grundnorm del sistema contabile della Repubblica italiana al cui presidio è posta, proprio per la tecnicità del fatto e la complessità tecnica della fattispecie delle norme interposte, una speciale Magistratura (artt. 100 e 103 Cost.), norma, peraltro, che sebbene non fosse espressamente richiamata prima della L. cost. 1/2012, era già chiaramente distinta dal pareggio e qualificata come “dinamica” o “tendenziale” (cioè da mantenere non solo in modo statico e ipotetico in sede di programmazione, ma in concreto, in fase di gestione) nella sent. C. cost. n. 1/1966 (cfr. altresì, ex plurimis, la sentenza C. cost. n. 213/2008, evocando il ruolo della rendicontazione e della sua funzione di accertamento degli equilibri in corso di gestione).
Non è peraltro un principio, perché, a fronte di rimedi variabili, affidati al principio di effettività, individua in modo espresso un effetto de minimis implicito nel carattere dinamico e bifasicamente articolato del bene pubblico bilancio (programmazione e rendicontazione). La principale, ineludibile misura di salvaguardia o correttiva, per la quale non è necessaria nessuna interposizione legislativa, discende direttamente dal sistema costituzionale ed è costituita, appunto, dall’adottare «appropriate variazioni del bilancio di previsione» (sentenza n. 250/2013) volte a recuperare l’equilibrio turbato, in ragione del principio della continuità di bilancio e degli esercizi finanziari (sentenza n. 274/2017). Il principio della continuità, infatti, è «essenziale per garantire nel tempo l’equilibrio economico, finanziario e patrimoniale» (cfr. sul punto Corte costituzionale sentenza n. 155/2015).
3. Sui diversi “tipi” di disavanzo. Disavanzi “ortodossi” ed “eterodossi” piani straordinari di rientro. Sulla base di quanto premesso, si comprende come accanto all’unitario disavanzo e alla disciplina unitaria e indifferenziata del suo rientro (derivato dalla regola del pareggio), sia possibile una disciplina “differenziata” per tempo di rientro e disciplina della sua “applicazione” agli esercizi successivi, ammissibile nella misura in cui il Legislatore miri a garantire la continuità di bilancio e dell’amministrazione e, in ultimo, il buon andamento della pubblica amministrazione, nella continuità dell’erogazione di beni, funzioni, servizi, diritti.
Tra questi, una peculiare natura ed importanza riveste il disavanzo da FAL, cioè determinato dal corrispondente “accantonamento” al Fondo anticipazioni straordinaria di liquidità.
Il disavanzo da FAL, rispetto agli altri disavanzi, non deroga solo per i tempi, ma anche per modalità di contabilizzazione e modalità di applicazione, è cioè doppiamente “eterodosso”. Per convenzione, visto che gli altri disavanzi derogano soltanto per i tempi di rientro, da ora innanzi si definirà il complesso di tali disavanzi, disavanzo “ortodosso”.
Si seguito si evidenziano la differenza di disciplina e di funzione del c.d. disavanzo “eterodosso” da FAL.
Come è noto, l’accantonamento a FAL è determinato da una posta di spesa, appositamente attivata a previsione, non impegnabile e pagabile, destinata a “confluire” in un accantonamento sul risultato di amministrazione (senza formare economia di spesa). La funzione di tale posta di spesa, da tradurre in un fondo a consuntivo, è quella di evitare che una forma tecnica di indebitamento (un mutuo) sia utilizzato a copertura di pregressi disavanzi o comunque di spesa diversa da investimento (art. 119 comma 6 Cost., sentenze C. cost. n. 181/2015 e n. 89/2017). Infatti, come efficacemente chiarito dal Giudice delle Leggi, la locuzione «confluire nel risultato di amministrazione come quota accantonata» altro non significa che “neutralizzazione” della correlata posta attiva ai fini del calcolo del risultato di amministrazione.
L’accantonamento a consuntivo consente cioè di neutralizzare il differenziale positivo tra entrata e spesa generato, in contabilità finanziaria, dalla percezione di un mutuo (quello ex D.L. n. 35/2013) a copertura di spesa indifferenziata, evitando che l’anticipazione di liquidità possa diventare una “plusvalenza fittizia ai fini della determinazione del risultato di amministrazione” (C. cost. n. 89/2017). Infatti, una contabilizzazione dell’anticipazione di liquidità coerente con la qualificazione civilistica di mutuo porterebbe ad una espansione del risultato di amministrazione, poiché in caso di prestito vengono contabilizzate, per competenza finanziaria, in termini di spesa, solo le rate per capitale ed interessi, in termini di entrata, l’intera somma percepita.
Diversamente, la contabilizzazione alla stregua di una anticipazione di liquidità (prima prevista solo in via esegetica, mediante un’assimilazione alle anticipazioni di tesoreria, cfr. sentt. n. 188/2014, 181/2015, 89/2017; Sezione autonomie n. 14/SEZAUT/2013/QMIG per il fondo di rotazione e Sezione autonomie n. 19/2014/QMIG, per l’analoga anticipazione straordinaria ex D.L. n. 35/2013): a) consente di sterilizzare, sul risultato di amministrazione, l’intera somma percepita, senza ampliare la facoltà di spesa (per aumento dell’avanzo o riduzione del disavanzo da applicare sugli esercizi successivi) b) si realizzano effetti contabili esclusivamente per cassa, col beneficio di migliorare i tempi di pagamento.
Inoltre, grazie a tale accantonamento, in caso di risultato di amministrazione capiente, era possibile dare copertura, in conto competenza, alle rate di restituzione dell’anticipazione, applicando, in entrata, una quota del risultato di amministrazione accantonato pari alla rata di ammortamento. In questo modo, la restituzione del mutuo/anticipazione era virtualmente garantita dei residui attivi che erano a suo tempo a copertura dei pagamenti anticipati e, in relazione ai quali, il FAL opera in funzione “neutralizzatoria”.
Restava ferma la necessità di verificare, progressivamente, l’esigibilità dei residui a copertura ed eventualmente finanziarne lo stralcio mediante gli accantonamenti a FCDE.
Ad ogni buon conto, in caso di disavanzo, la restituzione delle rate di ammortamento doveva essere garantita reperendo risorse aggiuntive negli esercizi successivi, mediante l’applicazione di tale posta in spesa.
Il Legislatore è successivamente intervenuto tipizzando le modalità di contabilizzazione per le regioni (articolo 1, commi da 692 a 700, della legge 28 dicembre 2015, n. 208), agendo, in modo innovativo, rispetto alla giurisprudenza citata sulle modalità applicative a previsione (commi 693 e ss.).
La disciplina citata regolamenta il comportamento del disavanzo generato da FAL, comportamento il quale, per disciplina legislativa, è profondamente derogatorio del regime ordinario del disavanzo secondo la contabilità generale (funzione recuperatoria), non solo per i tempi di recupero, ma anche perché è stata adattata alla sua funzione neutralizzatoria la disciplina della sua applicazione, attraverso regole speciali.
Segnatamente, i commi 692 e 698 hanno disposto che, a previsione, nell’anno di originaria percezione delle anticipazioni, nel titolo di spesa riguardante il rimborso dei prestiti, deve essere iscritto il fondo anticipazione di liquidità, di importo pari alle anticipazioni incassate nell’esercizio, non impegnabile e pagabile, destinato a confluire nel risultato di amministrazione come quota accantonata, ai sensi dell’articolo 42 del d.lgs. n. 118/2011.
Per altro verso, i commi 693 e 700 prevedono articolatamente la disciplina per la contabilizzazione e costruzione degli equilibri negli esercizi successivi, nei bilanci di previsione (nonché per il rientro di detto disavanzo). A tale scopo viene dettata una disciplina articolata per la “applicazione” della quota accantonata, in caso di risultato di amministrazione incapiente (in pratica, in caso di disavanzo). Secondo la legge di stabilità 2016, in tale caso, le regioni devono applicare, negli esercizi successivi:
- in entrata, il FAL al 31.12 dell’anno precedente, nella voce “Utilizzo avanzo di amministrazione”, con espressa indicazione “di cui Utilizzo Fondo anticipazioni di liquidità (D.L. n. 35/2013 e successive modifiche e rifinanziamenti)”;
- in spesa, nel titolo “rimborso prestiti”, due distinte voci che operano in combinato disposto, segnatamente:
- il FAL dell’anno precedente, al netto delle rate pagate;
- la rata di rimborso annuale di competenza che si prevede di pagare.
La peculiarità di tale disciplina e del correlato disavanzo da “accantonamento neutralizzatorio” è peraltro evidente (commi 693 e 700, lett. a), in quanto consente, in sede previsionale:
a) l’applicazione in entrata non solo della quota corrispondente alla rata di ammortamento, ma dell’integrale accantonamento accertato effettuato a consuntivo;
b) di decrementare l’accantonamento da applicare in spesa per la quota che sarà oggetto di pagamento, in pratica derogando alla regola della unitaria ed invariata applicazione dell’eventuale disavanzo (accertato o presunto) derivante dall’esercizio precedente;
c) ferma restando la separata contabilizzazione della quota di competenza della rata di rimborso.
Tuttavia, per evitare che – in situazioni di disavanzo – tale decremento si traduca in un recupero e copertura solo virtuale della quota di ammortamento,
d) il disavanzo (commi 694 e 699) deve, comunque, incorporare la quota di rimborso prevista, in pratica, dato l’ammortamento trentennale del mutuo, pari a circa un trentesimo del FAL.
Infatti, la sola contabilizzazione in spesa, nel pertinente Titolo III, del rimborso della quota trentennale e del FAL decrementato in pari ammontare (unita con l’applicazione in entrata dell’intero FAL) consentirebbe di finanziare il rimborso della rata di ammortamento senza recuperare risorse che sono ab origine assenti nel risultato di amministrazione, in pratica di disimpegnare l’ente dal recupero del disavanzo, ampliando la capacità di spesa: per tale ragione la Sezione Autonomie (n. 28/2017/QMIG), con pronuncia nomofilattica, ha evidenziato che il disavanzo applicato deve comprendere, tra le varie componenti, la quota di disavanzo pari alla rata di ammortamento di competenza.
Diversamente, una letterale applicazione della legge, “astrattamente possibile” nel senso dell’ampliamento della capacità di spesa, sarebbe in contrasto con i dettami ermeneutici delle sentt. nn. 181/2015 e 89/2017 e quindi, in definitiva, incostituzionale, producendo una “plusvalenza fittizia ai fini della determinazione del risultato di amministrazione” incompatibile con l’esegesi costituzionale dell’istituto (C. Cost. sent. n. 89/2017, in coerenza con i principi già enunciati nella precedente sentenza n. 181/2015).
Tanto premesso sul disavanzo “eterodosso” da FAL, diversamente, per gli altri disavanzi (c.d. ortodossi), la contabilità pubblica prende in considerazione deficit di risorse che hanno origine in un difetto di copertura finanziaria reale, emerso in corso di gestione, tramite la rendicontazione o la verifica intermedia degli equilibri e che devono tradursi in un recupero, altrettanto reale di risorse. Tale recupero si realizza prima con la quantificazione “presuntiva” dello squilibrio (cfr. Corte cost. n. 70/2012 su risultato di amministrazione presunto), successivamente con la sua eventuale “definizione” ed accertamento a rendiconto e poi, successivamente, tramite l’applicazione del disavanzo correlato a previsione, attraverso il quale la contabilità finanziaria predispone le condizioni per un recupero effettivo delle risorse mancanti. Tale risanamento deve essere verificato nei cicli immediatamente successivi, ancora una volta, tramite l’aggiornamento delle informazioni sul risultato di amministrazione, mediante il suo “accertamento” effettuato in sede di rendiconto.
In definitiva, contrariamente a quanto previsto per l’eterodosso disavanzo con funzione neutralizzatoria derivante dall’accantonamento a FAL – il quale si riduce automaticamente (sempreché sia stato applicato), di anno in anno, per effetto “del rimborso dell’anticipazione effettuato nell’esercizio” (commi 693 e 700) per competenza, quindi per effetto della mera contabilizzazione della quota di rimborso dell’anticipazione – negli altri casi la quota di disavanzo che concorre al pareggio di bilancio previsionale per decrementarsi deve corrispondere ad una riduzione del disavanzo a consuntivo, in quanto è il consuntivo, nella contabilità finanziaria, il momento in cui è possibile verificare se il piano di rientro ha avuto esecuzione effettiva e si è dimostrato sostenibile.
A differenza del disavanzo da “neutralizzazione” (ovvero quello da FAL), si tratta di disavanzi “reali”, ovvero squilibri, difetti di copertura, manifestatisi a rendiconto, rispetto a spese contratte, ovvero temute (rischi) o programmate, a causa dell’insufficienza delle risorse e della loro reale consistenza.
Ciò vale anche per il c.d. extra-deficit (art. 3, comma 16, del D.lgs. n. 118/2011) che non è una mera partita di conversione del vecchio risultato di amministrazione in quello armonizzato, ma l’espressione di un reale ed effettivo squilibrio di bilancio, prima latente e non “sintetizzato” nel risultato di amministrazione della vecchia contabilità.
In particolare, il FCDE e il FR nonché gli altri accantonamenti, vincoli e destinazioni concorrono a definire gli equilibri finanziari reali che possono essere recuperati i due modi: a) in primo luogo, tramite una variazione positiva del differenziale tra crediti e cassa da una parte e debiti dall’altra (Riga A del prospetto dimostrativo del risultato di amministrazione), b) in secondo luogo, tramite il miglioramento della qualità della gestione (Righe B-D), ad esempio sotto il profilo della riscossione dell’attivo (abbattimento del FCDE) ma anche per effetto del raggiungimento degli obiettivi di spesa (riduzione della spesa vincolata) ovvero per il miglioramento del governo di rischi di varia natura (dal contenzioso, al sistema delle partecipate).
Pertanto, il disavanzo, al netto del FAL, comprensivo dell’extra-deficit, può dirsi recuperato solo se si verifica a consuntivo un miglioramento del saldo della “parte disponibile” (Riga E) del prospetto dimostrativo del risultato di amministrazione.
4. L’obbligo (di diritto pubblico) di rientro dal disavanzo. Obiettivi “dinamici” (e “di mezzi”, a previsione) e “statici” (e “di risultato”, a consuntivo). Il disavanzo certifica la mancanza di risorse a copertura delle passività certe e presunte registrate in bilancio. Il disavanzo è cioè un debito (generale e generico, che investe, a saldo, l’intero bilancio) che non ha effettiva copertura e che l’ente deve ripianare reperendo risorse reali che nei consuntivi successivi consentano di ripristinare l’equilibrio effettivo, attuale e prospettico.
Si tratta, quindi, di una grandezza reale che implica la necessità di un recupero altrettanto effettivo e concreto.
Ne consegue che mentre l’applicazione a previsione costituisce certamente un’attività preparatoria, necessaria e dovuta, per l’adempimento dell’obbligo giuscontabile e pubblicistico di riduzione del disavanzo, tale dovere può dirsi adempiuto ed eseguito solo con la performance di riduzione che è verificabile solo a consuntivo.
Partendo dal presupposto che il disavanzo è una grandezza reale da recuperare per garantire l’equilibrio ed il principio della copertura finanziaria della spesa, la sua funzione, dunque, non può essere solo quella di costituire, in sede di programmazione, uno strumento di compressione della spesa, ma quella di costituire l’oggetto di una prestazione contabile il cui adempimento non è “di mezzi”, ma “di risultato”, adempimento quindi che non può essere misurato solo attraverso l’attività preparatoria e programmatoria dell’ente, ma a consuntivo, con la verifica del risultato.
Il disavanzo, dunque, non esaurisce la sua funzione contabile di “riequlibrio” a previsione (restringendo lo spazio per nuova spesa), ma costituisce la misura dell’adempimento della prestazione di rientro, che si verifica a consuntivo e che in caso di registrazione di un fallimento di recupero, produce un aggravamento degli oneri di rientro nell’anno successivo. 4.1.
Se esaurisse la sua funzione solo a previsione si potrebbe facilmente avere un continuo slittamento temporale del reale recupero del disavanzo. Tale conseguenza logica e contabile si rende evidente, in ipotesi, rappresentando i seguenti due paradossi.
In primo luogo, ipotizzando che il disavanzo a consuntivo, annualmente, resti invariato tra un esercizio e l’altro, l’ente deficitario potrebbe virtualmente adempiere al piano di rientro e “azzerare” (solo virtualmente) il disavanzo (senza generarne di “nuovo”) mediante la sola e mera applicazione a previsione di quote previste dal piano di ammortamento del deficit, con la conseguenza di dovere predisporre – a distanza di molti anni – un nuovo piano di rientro per il disavanzo mai recuperato, piano che rischia di rivelarsi altrettanto inefficace del precedente, per la latente inefficienza della programmazione, che seppur puntualmente evidenziata a rendiconto, è stata sistematicamente ignorata.
In secondo luogo, la compressione virtuale di pregressi e “vecchi” disavanzi consente di far confluire le quote non recuperate in fittizi “nuovi” disavanzi, per cui si può facilmente accedere ad ennesimi piani di rientro pluriennale secondo le regole dell’art. 42, comma 12, del D.lgs. n. 118/2011, ovvero secondo le eccezionali e contingenti normative introdotte dal Legislatore (nel caso di cui si tratta, l’art. 9, comma 5, del D.L. n. 78/2015 con riguardo al disavanzo formatosi nel 2014 e l’art. 1, commi 779-782, della L. 205/2017, che ha novellato la stessa norma, estendendone l’applicazione anche al disavanzo originato nel 2015).
Una simile interpretazione contrasta, oltre con la logica, con la ratio e la natura delle norme che consentono di recuperare il disavanzo entro un orizzonte temporale più ampio (art. 42, comma 12, D.lgs. n. 118/2011, art. 3, commi 13 e 16 del D.lgs n. 118/2011; art. 9, comma 5, D.L. n. 78/2015), le quali sono: a) norme eccezionali e di stretta interpretazione; b) norme che impongono una esegesi orientata alla causa e dalla dimensione del deficit emerso (cfr. sentt. n. 279/2016, n. 6/2017 e n. 107/2016 e da ultimo la sent. n. 274/2017) e non alla convenienza concreta o alle difficoltà soggettive e politiche del singolo ente.
4.1. L’obbligo di rientro come obbligo di “risultato” entro un tempo definito. La regola (generale) del ribaltamento del disavanzo non recuperato nell’esercizio successivo. Ne consegue che una volta acceduto ad un piano di rientro pluriennale, il tempo di rientro del piano rimane definito in quello originario e le quote di disavanzo non recuperate vanno ad aggiungersi a quelle da recuperare nell’anno successivo, secondo la regola del pareggio prevista dall’art. 42, comma 12, primo periodo, senza potersi avvantaggiare a scorrimento e all’infinito dello scivolo offerto dal riequilibrio nell’arco di tempo del bilancio stesso (art. 42, comma 12 terzo periodo e seguenti; o nel più ampio periodo previsto da altre leggi, cfr. ad es. art. 3, commi 13 e 16 del D.lgs. n. 118/2011; art. 9, comma 5, D.L. n. 78/2015).
In definitiva, ove un ente faccia ricorso a norme siffatte, il tempo massimo di rientro non può che rimanere quello fissato dalla norma, imponendosi, in caso di disavanzi non recuperati nella misura di legge, di provvedere al rientro secondo il programma pluriennale autorizzato dalla legge, recuperando la quota non rimontata nell’annualità successiva, secondo la regola generale del pareggio (art. 39, 40 e 42, comma 12 primo periodo, D.lgs. n. 118/2011).
Tale corollario logico è stato espressamente codificato dall’art. 4, comma 2, del d.m. 2 aprile 2015 che, infatti, è una norma tecnica meramente attuativa di principi e di norme generali del D.lgs. n. 118/2011 e non una norma che innova precetti di leggi che, tra l’altro, non sono nella disponibilità di una fonte subordinata come un decreto ministeriale.
Detto in altri termini, la previsione da parte del Legislatore di un piano di rientro a tutela dell’“equilibrio” e della sostenibilità del disavanzo, nella continuità dell’amministrazione, alternativo al pareggio immediato nell’anno successivo, determina specifici obblighi giuridici per l’ente che ha aderito a tale opzione di rientro.
Il ripiano del disavanzo, infatti, diventa una “prestazione” oggetto di un’obbligazione contabile che deve essere evasa, con la periodicità stabilità dalla legge (e dal piano adottato in conformità di essa), raggiungendo specifici e quantificati obiettivi intermedi.
Gli obiettivi intermedi sono determinati, in primo luogo, in termini dinamici (ritmo di riduzione). L’obiettivo di riduzione dinamico esprime il disavanzo da applicare alle varie annualità, a previsione (prestazione di mezzi); allo stesso modo, applicando tali obiettivi sul disavanzo iniziale quantificato in una determinata annualità, per ciascuna annualità, è possibile determinare il disavanzo finale che si assume verrà accertato a chiusura di ciascun esercizio (obiettivo statico a rendiconto, che è la “prestazione di risultato” cui obbliga il piano di rientro).
La misura del disavanzo non recuperato, pertanto, viene definita annualmente, a fine anno, mediante il confronto tra il disavanzo obbiettivo “statico” (cioè a consuntivo) atteso ed il risultato di amministrazione accertato a rendiconto o, in mancanza, presunto.
La quota di disavanzo non recuperata, per le ragioni sopra esposta, concorre ad aggravare l’obiettivo dinamico dell’anno successivo, a previsione.
In buona sostanza, lo squilibrio, accertato a rendiconto, e fatto oggetto di un piano di rientro, fa sorgere un’obbligazione di diritto pubblico sui generis, che obbliga essenzialmente ad una prestazione di risultato.
4.2. L’imputazione del recupero ai vari “disavanzi” nella successione tra più esercizi dagli esiti altalenanti. Rimane da stabilire che cosa accade nella successione degli esercizi nel caso in cui il disavanzo complessivo, a cavallo di più esercizi, vari, aumentando o riducendosi, in misura non capiente rispetto all’obiettivo di riduzione corrispondente al disavanzo applicato a previsione.
Nel caso del richiamato obbligo giuscontabile di rientro (un obbligo di diritto pubblico, “verso sé stessi”, ma in realtà espressione di un duplice vincolo: di solidarietà con la Repubblica ex artt. 2, 114 Cost., 117 comma 1 Cost.; di mandato con gli elettori, ex art. 1, 2, 3 e 97 Cost.) alla stregua di quando accade nel caso di obbligazioni di diritto civile, in cui un soggetto abbia più debiti a diverso titolo verso uno stesso creditore, occorre procedere ad imputazione dell’“adempimento” sulla base di criteri ricavabili dalla legge (cfr. art. 1193 c.c.): nel silenzio del Legislatore tale criterio non può essere che quello dell’anzianità dell’obbligo, rectius, del titolo (causa) da cui scaturisce l’obbligo di riduzione del disavanzo (sia per il principio della successione delle leggi nel tempo sia per il più generale principio giuridico di riduzione dei conflitti tra titoli, prior in tempore, potior in iure).
Nel caso in cui, dunque, a consuntivo il disavanzo si sia ridotto, si procede ad imputazione della riduzione secondo tale ordine di priorità temporale.
Per la parte in cui la riduzione accertata del disavanzo non è capiente o in caso di aumento del disavanzo, le quote non recuperate vanno ad aumentare l’obiettivo di riduzione dell’anno successivo per ciascuna delle quote non recuperate.
4.3. Il carattere prescrittivo del prospetto sulla composizione e recupero dei disavanzi. Tanto premesso, appare ormai evidente che dal punto di vista qualitativo, il disavanzo diverge a seconda delle modalità e dei tempi di ripiano per esso previsti; in quest’ottica, il prospetto dell’Allegato 4/1 del D.lgs. 118/2011, § 9.11.7, a garanzia della trasparenza e della accountability che attraverso il bilancio deve essere assicurata rispetto all’amministrazione (Corte costituzionale, sent. n. 49/2018), deve quantificare – in modo chiaro e sintetico – l’effetto prescrittivo che consegue alla rappresentazione dei fatti di gestione rendicontati (la fattispecie, sinteticamente costituita dal prospetto dimostrativo del risultato di amministrazione e dalla prima sezione del prospetto di cui si tratta).
Il risultato di amministrazione, nella sua quantità (prospetto dimostrativo del risultato di amministrazione di cui all’All. 10 del D.lgs. n. 118/2011) e qualità (prospetto dell’Allegato 4/1 del D.lgs. 118/2011, § 9.11.7), dunque, ha una funzione informativa, ma anche prescrittiva, che, in caso di disavanzo, si esprime in modo diretto nella seconda sezione del prospetto in questione. Tale sezione, infatti, delinea la “misura” del rientro imposta sugli esercizi successivi e quindi l’eventuale necessità di manovre di assestamento sul bilancio di previsione già approvato sulla base di un risultato di amministrazione sino a quel momento solo “presunto”.
Tale saldo costituisce, per induzione dai fatti di gestione accertati e rendicontati in entrata ed in spesa, la “prova” di uno squilibrio e allo stesso tempo il titolo e la misura di un obbligo contabile; in buona sostanza, il risultato di amministrazione “accertato” col rendiconto ha un ruolo centrale nel sistema della contabilità finanziaria degli enti territoriali, in quanto “prescrive” l’an e il quantum delle azioni di bilancio che scaturiscono da fatti “accertati”, conferendo alla legge di rendicontazione, alla stregua della legge di bilancio, una natura sostanziale e normativa.
Il risultato di amministrazione, dunque, non è una mera dichiarazione di scienza con finalità informative, ma il contenuto di un “dover essere” prescrittivo che costituisce il cuore normativo e sostanziale della legge di rendicontazione; si tratta quindi di un contenuto del rendiconto che deve essere conforme tanto alla legge (con ciò intendendosi sia la Costituzione che le già citate “norme sulla normazione” contabile) che ai fatti che esso rappresenta; tale controllo di conformità, a legge e a realtà, è infatti uno dei momenti essenziali del giudizio di parifica.
Siffatto effetto prescrittivo (che si determina per l’amministrazione e sulla successiva legge di previsione), tra l’altro è effetto, a sua volta, della misurazione dei fatti di gestione, tra cui, l’effettivo raggiungimento del rientro dal disavanzo eventualmente quantificato e “spalmato” in più esercizi in cicli di rendicontazione precedenti.
Detto in altri termini – tanto quanto la legge di bilancio di previsione (nel nuovo ordinamento contabile è nota l’abrogazione del vecchio comma 3 dell’art. 81 Cost. ex Lege cost. n. 1/2012; peraltro la natura meramente formale della legge di bilancio era da tempo in profonda crisi e discussione già nel pregresso assetto costituzionale) – la legge di rendiconto ha natura sostanziale ed innova l’ordinamento.
Ed infatti, come evidenziato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 274/2017, la legge di rendiconto, tramite il risultato di amministrazione ha un’«efficacia di diritto sostanziale» sulla gestione finanziaria successiva e «l’invalidità delle partite destinate, attraverso la necessaria aggregazione, a determinarne le risultanze, pregiudica irrimediabilmente l’armonia logica e matematica che caratterizza funzionalmente il perseguimento dell’equilibrio del bilancio» (punto 6 del cons. in dir.).
In estrema sintesi, la corretta quantificazione dell’effetto prescrittivo sui successivi esercizi (seconda sezione del prospetto dell’Allegato 4/1 del D.lgs. 118/2011, § 9.11.7) dipende: a) dalla corretta determinazione (e riaccertamento) di ciascuna componente di disavanzo nelle varie annualità rendicontate (prima sezione del prospetto dell’Allegato 4/1 del D.lgs. 118/2011, § 9.11.7); b) dalla ricostruzione del percorso di rientro rispetto a ciascun “tipo” di disavanzo via via emerso nel corso degli anni e dalla eventuale annotazione e “accertamento” di ritardi sullo stesso. Entrambe le operazioni richiedono di effettuare tale verifica nella continuità degli esercizi finanziari, in coerenza con i vari piani di rientro di cui l’ente deve tenere un’evidenza extra-contabile, vale a dire tra scritture non obbligatorie eppure necessarie per adempiere alle prescrizioni del D.lgs. n. 118/2011 in materia di risultato di amministrazione.
5. La nuova copertura qualificata delle leggi di spesa imposta dal D.lgs. n. 118/2011 (la sostenibilità finanziaria)… Come evidenziato dalla giurisprudenza di talune Sezioni regionali di controllo (SRC Campania nn. 238/2017/PRP, n. 249/PRSP e n. 52/2018/PRSP, orientamento di recente confermato da SS.RR. sentenza n. 24/2018//EL), nel nuovo sistema della contabilità armonizzata, improntato ad una maggiore prudenza (Allegato 1 D.lgs. n. 118/2011, punto 9), sussistono più rigorosi limiti al finanziamento della spesa mediante applicazione del risultato di amministrazione.
Tali limitazioni sono in linea con un sistema di finanziamento della spesa degli esercizi futuri più rigido, che impone di verificare che in ogni esercizio la copertura giuridica sia qualificata in termini di “sostenibilità finanziaria” (sull’uso di questo termine nella legislazione, cfr. art. 148-bis TUEL).
La sostenibilità finanziaria della copertura si declina attorno a tre architravi: a) al nuovo principio della competenza finanziaria, b) al rinnovato sistema dei fondi sul risultato di amministrazione, c) al rilievo dei vincoli e degli equilibri di cassa.
Il primo è costruito attorno al concetto di esigibilità giuridica dell’obbligazione, il quale è stato posto come criterio centrale del sistema per la rilevazione ed imputazione a bilancio di debiti e crediti (competenza finanziaria potenziata). Il sistema della competenza finanziaria potenziata, implica che la verifica della copertura debba avvenire al momento in cui la spesa diventa esigibile e (quindi) imputabile al bilancio. La ratio di questo sistema è evitare che crediti, pur maturati nel titolo, non siano in grado di sostenere effettivamente, in termini di flussi finanziari, la spesa, quando l’esigibilità di quest’ultima si verifica.
Eventuali disallineamenti temporali, infatti, generano difetti di copertura e “disavanzi” che possono essere bypassati solo in presenza di espresse (e ragionevoli) autorizzazioni di legge, come è avvenuto, in fase di avvio della contabilità armonizza, con il c.d. disavanzo tecnico (cfr. art. 3, comma 13, D.lgs. n. 118/2011 e C. cost n. 6/2017 che espressamente afferma «La norma sul disavanzo tecnico deve essere […] interpretata in modo costituzionalmente orientato, dal momento che “per i principi contabili vale la regola dell’interpretazione conforme a Costituzione, secondo la quale, in presenza di ambiguità o anfibologie del relativo contenuto, occorre dar loro il significato compatibile con i parametri costituzionali” (sentenza n. 279 del 2016). Ove fosse possibile solo l’ipotesi ermeneutica estensiva della regola adottata dalla Regione […] ciò determinerebbe l’illegittimità costituzionale dello stesso principio contabile, dal momento che, così interpretato, esso diventerebbe un veicolo per un indebito allargamento – in contrasto con l’art. 81 Cost. – della spesa di enti già gravati dal ripiano pluriennale di disavanzi di amministrazione pregressi (in tal senso, sentenza n. 279 del 2016). In quanto eccezione al principio generale dell’equilibrio del bilancio, la disciplina del disavanzo tecnico è comunque di stretta interpretazione e deve essere circoscritta alla sola irripetibile ipotesi normativa del riaccertamento straordinario dei residui nell’ambito della prima applicazione del principio della competenza finanziaria potenziata, in ragione delle particolari contingenze che hanno caratterizzato la situazione di alcuni enti territoriali».
Analogamente, il rinnovato sistema dei fondi, implica la necessità di tenere memoria, attraverso la Riga E del risultato di amministrazione, della eventuale capienza dello stesso a dare copertura, al momento in cui l’esigibilità giuridica della spesa matura, alle correlate obbligazioni giuridiche passive per cui è stata “riservata” una determinata provvista finanziaria (crediti o cassa) sui saldi di fine esercizio, attraverso vincoli o accantonamenti. La funzione fondamentale del “saldo” risultato di amministrazione di cui alla Riga E, infatti, è: a) dare evidenza della esistenza di un “risparmio” per economie che derivano dagli esercizi precedenti (Riga A) che rende finanziabile (cioè può dare copertura) a nuova spesa in esercizi futuri (“obbligatoria”, per cui sono stati precostituiti accantonamenti e vincoli per “riservare” tale risparmio, ovvero “libera”, attraverso la “parte disponibile”); viceversa, in caso di disavanzo, la funzione del risultato di amministrazione è: b) certificare la eventuale sopravvenuta mancanza di tali risorse e l’impossibilità di utilizzare lo stesso in copertura, decretando la misura del recupero necessario a ripristinare l’equilibrio.
Cosicché, la competenza finanziaria potenziata, in uno con il sistema dei fondi sul risultato di amministrazione, ha introdotto chiaramente una divaricazione tra il momento della costituzione di una “provvista finanziaria” (crediti e cassa) ed il momento della copertura, che attraverso il predicato della “esigibilità” e dei vincoli si prescrive debba essere non solo giuridica (costituzione del titolo), ma anche effettiva, vale dire: sincrona in termini di flussi (di pagamento e riscossione) e sostenibile in termini di saldi (recte, equilibri), verificando l’attualità della disponibilità di bilancio. In questa stessa ottica, il bilancio di previsione è divenuto, sia pure limitatamente al primo anno del suo orizzonte temporale, autorizzatorio per cassa.
In pratica, attraverso il combinato operare dei tre istituti menzionati, il sistema elaborato dal D.lgs. n. 118/2011 ha riqualificato il concetto di copertura e le sue tecniche, imponendo di prevenire l’impossibilità di adempiere alle proprie obbligazioni per l’insussistenza di una provvista finanziaria a-sincrona ed effettiva.
Al contrario, col precedente sistema, l’evento dell’accertamento di un’entrata vincolata era assai spesso sufficiente a simulare un’obbligazione contabile (c.d. residui passivi tecnici), cosicché la stessa, quando fosse sorta veramente, sarebbe stata ritenuta già autorizzata dal bilancio, anche se le coperture sottostanti fossero state erose da successivi riaccertamenti delle partite attive e passive che costituiscono il risultato di amministrazione. In tal caso si sarebbe potuto constatare, a consuntivo, l’emersione di un disavanzo, ferme restando la copertura e la legittimità del procedimento di spesa già autorizzato ed incistato in un residuo passivo.
Con il nuovo sistema non è più possibile generare siffatti residui passivi tecnici, sicché la spesa non può ritenersi coperta e autorizzata per il solo fatto della sussistenza e della registrazione, in un dato esercizio, di una provvista finanziaria “riservata” (vincolata o accantonata). Sebbene tale provvista sia accertata in esercizi precedenti, la copertura, vale a dire la riconduzione giuridica della medesima provvista alla spesa, presuppone l’imputabilità in bilancio (che nel nuovo sistema del D.lgs. n. 118/2011, presuppone l’esigibilità in senso giuridico dell’obbligazione, vale a dire, l’assenza di ostacoli all’attivazione della pretesa esecutiva).
La copertura, cioè, la verifica della sussistenza, per una spesa imputabile al bilancio, di una provvista finanziaria, presuppone che tale provvista sia presente al momento in cui la spesa diventa esigibile: nel sistema del D.lgs. n. 118/2011, a questa regola fanno eccezione soltanto gli istituti (a tempo) del Fondo pluriennale vincolato e degli “impegni/residui tecnici di destinazione” (cfr. amplius la digressione nel § 9) per il “perimetro sanitario”.
Grazie a questa riqualificazione della “copertura” e la sua netta distinguibilità dal momento della prima rilevazione di una “provvista finanziaria”, il nuovo regime contabile ha la capacità di prevenire squilibri che si manifestano in forma grave, come “insostenibilità finanziaria” conclamata, per l’insufficienza delle risorse in bilancio di garantire la regolarità dei pagamenti (squilibrio di Riga A, ovvero, saldo negativo tra cassa e crediti da una parte, e residui passivi dall’altra). Tale capacità si realizza mediante una restrizione della facoltà di copertura della spesa, erodendo prima lo spazio per la copertura di spesa discrezionale (Riga E del risultato di amministrazione) e poi imponendo di verificare l’attualità delle provviste finanziarie per la spesa obbligatoria di prossima esigibilità.
La capacità del risultato di amministrazione di attivare misure di salvaguardia degli equilibri si manifesta quindi non solo a valle (a consuntivo), con la (constatazione della) formazione di disavanzi al netto dei fondi (quelli di Riga A, come saldo negativo tra crediti e cassa da un latto, e debiti dall’altro), ma a preventivo, tramite la prudenziale operatività dei fondi (risultato di amministrazione al lordo del fondi, Riga E): i fondi impongono cioè di misurare quanto spazio effettivamente sussiste per la copertura della spesa, prima obbligatoria, poi libera, nel momento in cui questa diventa esigibile.
L’incapienza del risultato di amministrazione di Riga A, rispetto ai fondi, restituisce la misura del se e di quanto spazio sussiste per spesa discrezionale (parte disponibile), ma anche quale quota del saldo che rimane a copertura della futura spesa obbligatoria che diventa esigibile nel nuovo esercizio finanziario.
In caso di insufficienza delle risorse residue rispetto ai fondi, infatti, occorre: a) recuperare il nuovo disavanzo, ora non più definito come saldo negativo di Riga A, ma come “incapienza” del medesimo saldo, ove anche positivo, rispetto ai fondi (“parte disponibile” di “Riga E”, cfr. art. 1 del d.m. 2 aprile 2015; b) proporzionare di conseguenza la copertura della nuova spesa, sebbene obbligatoria e vincolata, tenendo conto
- della verificata intervenuta erosione della originaria provvista finanziaria che l’ente aveva il dovere di preservare attraverso i vincoli di destinazione e
- del recupero programmato di tale risorse mancanti (disavanzo applicato).
In questo modo il nuovo concetto di risultato di amministrazione e di “disavanzo” del D.lgs. n. 118/2011 (così definito da Sezione Autonomie, deliberazione n. 9/2016/INPR, § 3.1) assicura una efficiente e preventiva tutela degli equilibri, già in fase di copertura della spesa, a previsione, laddove il vecchio sistema:
- basato su un concetto diverso di risultato di amministrazione e di disavanzo (ovvero, il saldo netto negativo tra residui e cassa da un lato, e residui passivi dall’altro)
- consentendo di “simulare” la copertura attraverso la iscrizione di un residuo passivo anche in assenza di una obbligazione passiva esigibile
rinviava il problema dello squilibrio e della salvaguardia del bilancio alla fase della rendicontazione, in caso di manifestazione di un disavanzo in modo siffatto definito. Ciò poteva avvenire, peraltro, a distanza di anni dalla “consumazione” della provvista di finanziaria, anche quando già insussistente al momento dell’applicazione del risultato di amministrazione. In tali casi il difetto di provvista di manifestava in tensioni di cassa che solo dopo anni portavano alla constatazione, mediante il riaccertamento ordinario, della incapacità del bilancio di sostenere la spesa complessiva, per l’insussistenza di residui attivi o per il sopraggiungere di passività non contabilizzate.
Con il nuovo sistema, invece, si obbliga l’operatore contabile a dare copertura, e quindi ad autorizzare ed imputare la spesa solo quando di essa risulta la “sostenibilità finanziaria”. In pratica, il sistema elaborato dal D.lgs. n. 118/2011 obbliga ad accertare che le provviste, registrate col sistema dei fiondi sul risultato di amministrazione, siano ancora sussistenti (e non altrimenti distratte o assorbite da vicende del bilancio), affinché si possa dare una copertura non meramente “tecnica”, ma effettiva, alla spesa, al momento in cui diventa esigibile. Questo implica la necessità di verificare la capienza del risultato di amministrazione del suo complesso, sia per la quota “libera” (di norma destinata a spesa discrezionale) che per quella “riservata” (a spesa obbligatoria) per prevenire la formazione di disavanzi già in fase di programmazione ed evitare che l’incapienza venga certificata solo a rendiconto, con la formazione di uno sbilancio tra residui attivi e cassa da un lato e residui passivi dall’altro.
Il sistema dei fondi consente così di evidenziare, già in fase di autorizzazione della spesa, una incapienza del risultato di amministrazione, precludendo la possibilità di autorizzare la stessa se le quote applicate, anche vincolate, non corrispondono più ad una “provvista finanziaria” attuale, poiché essa risulta in qualche modo erosa in corso di gestione (a causa, ad esempio, di un imponente stralcio di residui attivi non esigibili, magari diluito negli anni, così come è avvenuto per la Regione Campania).
Questo nuovo sistema evita dunque che uno squilibrio – che la Riga E del risultato di amministrazione può esprimere in potenza ed in chiave prospettica – diventi effettivo, con la certificazione a consuntivo della “insostenibilità finanziaria” di nuove obbligazioni passive, prima autorizzate e poi sorte in assenza di altrettante ed effettive risorse attive (crediti o cassa). Si vuole cioè impedire che eventuali squilibri, pur registrati preventivamente alla Riga E del risultato di amministrazione, possano transitare alla Riga A, con una violazione grave degli artt. 81 e 97, comma 1, Cost.
5.1. … e il conseguente limite all’applicazione delle quote vincolate. La distinzione tra “disavanzo” ed il c.d. “saldo contabile primario”. La possibilità di applicare quote del risultato di amministrazione presuppone sia rispristinata una situazione di equilibrio che la presenza di un disavanzo certifica mancante.
In questo senso, come è stato evidenziato dalla Sezione regionale campana e dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte «il risultato di amministrazione [costituisce] una valida copertura in competenza solo ove sia positivo; in caso di disavanzo, i vincoli di destinazione delle risorse confluenti a fine esercizio nel risultato di amministrazione permangono e l’Ente deve ottemperare a tali vincoli attraverso il reperimento delle risorse necessarie per finanziare gli obiettivi cui sono dirette le entrate vincolate rifluite nel risultato di amministrazione negativo o incapiente» (SRC Piemonte n. 134/2017/PARI. Allegato, pag. 103 e ss.) e «nel caso di risultato di amministrazione negativo l’Ente dovrà, anziché [applicare direttamente le quote vincolate o accantonate del risultato di amministrazione, dovrà], reperire ex novo le risorse necessarie a sostenere le spese cui erano originariamente destinate le entrate vincolate/accantonate nel risultato di amministrazione e nel successivo bilancio preventivo occorrerà trovare le risorse necessarie a finanziare le connesse spese, altrimenti prive di copertura effettiva» (SRC Campania n. 238/2017/PAR; in senso conforme SRC Campania n. 249/2017/PRSP e SRC Liguria n. 103/2018PRSP).
Questo orientamento è stato di recente condiviso dalle Sezioni riunite della Corte dei conti, con la sentenza n. 24/2018//EL, la quale ha espressamente affermato: «Queste Sezioni riunite ritengono di condividere l’orientamento ermeneutico della Sezione regionale (cfr. in termini SRC Piemonte 23/2017; SRC Campania 249/2017/PAR; SRC Liguria 103/2018/PRSP) in quanto coerente con i principi informatori del nuovo sistema contabile ed in linea con le coordinate offerte dalla giurisprudenza costituzionale con le sentenze n. 70 e n. 192 del 2017.
D’altro canto, la riflessione in atto presso la Commissione Arconet per l’adozione di un intervento normativo volto ad ovviare alle conseguenze di tale rigorosa ricostruzione – documentata dalla difesa dell’Ente con la produzione del verbale relativo alla riunione dell’11 aprile 2018 – costituisce, a parere di questo Collegio, conferma della fondatezza dell’assunto».
Di seguito le prefate affermazioni giurisprudenziali, declinate in termini di principio, vengono chiarite in termini operativi.
Nella prospettazione della giurisprudenza citata – e nel silenzio del Legislatore sulle condizioni e modalità di applicazione delle quote vincolate ed accantonate in caso di disavanzo – il “recupero” si ottiene mediante l’integrale applicazione del risultato di amministrazione accertato o presunto, di modo da ristabilire le condizioni di “capienza” del risultato di amministrazione con una (immediata) manovra sul bilancio dell’esercizio successivo.
Come è stato evidenziato, in situazioni di disavanzo, risultante dalla “Riga E” del prospetto dimostrativo del risultato di amministrazione (c.d. “parte disponibile”) non è possibile algebricamente, logicamente e giuridicamente ricavare margini per finanziare una spesa, discrezionale o obbligatoria, con “avanzo libero”, per l’assenza matematica di una grandezza siffatta (Corte costituzionale, sentenza n. 274/2017).
Altra questione è se sia possibile finanziare spese vincolate (o fornire “copertura” a rischi divenuti attuali) con i fondi costituiti in prospettiva del verificarsi delle condizioni di legge e di fatto per imputare al bilancio tale spese e rischi (fondi di cui alle “righe B-D”, All. 10 D.lgs. n. 118/2011).
Infatti, mentre l’avanzo/disavanzo di “parte disponibile” (“Riga E” del prospetto dimostrativo del risultato di amministrazione, All. 10 D.lgs. n. 118/2011) certifica la presenza/assenza di un risparmio “libero” da applicare negli esercizi successivi, nella continuità di bilancio, i “fondi” vincolati/accantonati di cui alle “righe B-D” evidenziano quanta parte delle risorse reali del bilancio (crediti e cassa) sopravanzanti le passività (“Riga A”) “devono” essere impiegati negli esercizi successivi per fornire la copertura a spesa per cui le condizioni giuridiche e/o di esigibilità si verificheranno in futuro.
La differenza tra risorse (crediti e cassa) e passività, corrispondente alla “Riga A” del prospetto dimostrativo del risultato di amministrazione di cui All. 10 D.lgs. n. 118/201, per comodità espositiva, per distinguerlo dal risultato di amministrazione vero e proprio (“Riga E”) viene qui indicato come “saldo contabile primario” (ovvero SCP).
Nel caso in cui l’ente si trovi in disavanzo (parte disponibile negativa, “Riga E”), dunque, è possibile ritenere continuino a sussistere spazi finanziari per la copertura di spesa vincolata da effettuare o per il rischio imminente solo se e nella misura in cui
- il SCP sia ancora capiente;
- e/o si provveda immediatamente a ripristinare la capienza del risultato di amministrazione, riportando la Riga E, virtualmente “a zero” mediante l’applicazione di un disavanzo, di pari ammontare all’incapienza.
Infatti, la copertura mancante verrebbe immediatamente reintegrata se l’ente –nell’esercizio successivo, nel bilancio di previsione – desse subito integrale ed immediata applicazione al disavanzo evidenziato (“Riga E”) in spesa: in tal modo ciascun ente sarebbe costretto (fisiologicamente e secondo sistema) ad effettuare col bilancio una manovra finanziaria di rientro in grado, potenzialmente, di recuperare tutte le risorse mancanti entro l’orizzonte temporale del bilancio, riportando lo stesso (e virtualmente il risultato di amministrazione) in pareggio. Algebricamente, l’applicazione del disavanzo in spesa nel bilancio di previsione successivo equivarrebbe a riportare a zero la “parte disponibile” negativa del risultato di amministrazione applicato, ridando capienza allo stesso e legittimando l’applicazione integrale di tutte le quote vincolate, destinate, accantonate in precedenza annotate sul tale saldo finale.
Solo in tal caso è consentito applicare integralmente le quote in precedenza accantonate e vincolate e corrispondenti ai fondi di cui alle righe “B-D” del risultato di amministrazione.
Il disavanzo, infatti, nella contabilità finanziaria, ha, come si è visto, la funzione, da un lato, di programmare il rientro da un deficit conclamato di risorse, e in sede consuntiva, di misurare la performance di tale recupero.
Diversamente ragionando (e cioè ritenendo sempre applicabili le quote di risultato di amministrazione vincolato, destinato e accantonato, a prescindere dalla condizione contabile dell’integrale applicazione del disavanzo) il risultato di amministrazione, anziché costituire lo strumento contabile per assicurare gli equilibri nella continuità di bilancio, si trasformerebbe in uno strumento per contrarre spesa “nuova” (sia pure “vincolata” ed obbligatoria per legge) in assenza di copertura effettiva, in quanto le risorse a suo tempo stanziate ed accertate, a seguito di successivo riaccertamento, sono risultate mancanti o sono venute meno per finanziare altra spesa (che in corso di gestione si è rivelata priva di copertura), generando prima un sofferenza di cassa e poi una conclamata diminuzione del risultato di amministrazione, con impatto sulla “Riga E” del prospetto dimostrativo.
Detto in altri termini, se in condizioni normali e statiche il vincolo sul risultato di amministrazione consente:
a) di lasciare memoria della destinazione sulle risorse inutilizzate ed evitare che esse vengono utilizzate per dare in futuro copertura a spesa diversa;
b) di considerare “finanziariamente neutra” e potenzialmente già coperta la spesa futura (neutralità che si esprime con la possibilità di coprire la spesa non con risorse nuove, ma con quote vincolate del risultato di amministrazione);
una verifica sul risultato di amministrazione negli esercizi successivi, ed in particolare in sede di rendiconto, potrebbe in chiave dinamica, evidenziare che a causa della sopravvenuta erosione della provvista finanziaria “riservata” (ad esempio per lo stralcio di residui attivi inesigibili o di dubbia esigibilità di parte corrente, correlata a spesa “libera”) si è realizzata una “distrazione” di scopo rispetto alla quale l’ente deve emendare: a) recuperando risorse per ricostituire la “provvista” (erosa prima del suo impiego) in modo da poter dare copertura alla spesa vincolata ed obbligatoria (o al rischio a suo tempo paventato); b) dando priorità, nella programmazione di bilancio, all’incardinamento di tale spesa.
In tali casi, la contabilità finanziaria affida al disavanzo e alla sua applicazione in spesa la funzione di ripristinare l’equilibrio alterato, “recuperando” le risorse mancanti per ripristinare la capienza del risultato di amministrazione rispetto ai fondi necessari per garantire tali spese e coprire l’ente da tali rischi finanziari, riportando la “Riga E” a zero.
5.2. La menomazione della funzione recuperatoria del disavanzo nell’era degli spalma-debiti e i conseguenti limiti all’applicazione delle quote vincolate. Tuttavia, in un sistema che endemicamente conosce forme di “spalma-debiti”, il disavanzo non è più in grado di svolgere tale funzione.
Per determinare quindi la misura possibile dell’applicazione di quote vincolate o accantonate del risultato di amministrazione, in assenza di una disciplina espressa di legge, occorre rifarsi al precetto dell’equilibrio e alla clausola generale della copertura economica e finanziaria delle spese (art. 81 e 97 Cost.).
Invero, se da un lato, «copertura economica delle spese ed equilibrio del bilancio sono due facce della stessa medaglia, dal momento che l’equilibrio presuppone che ogni intervento programmato sia sorretto dalla previa individuazione delle pertinenti risorse» (C. Cost., sent. n. 274/2017, punto 4 in diritto); si deve altresì ricordare che « copertura finanziaria ed equilibrio integrano una clausola generale in grado di operare pure in assenza di norme interposte quando l’antinomia [con le disposizioni impugnate] coinvolga direttamente il precetto costituzionale: infatti “la forza espansiva dell’art. 81, quarto [oggi terzo] comma, Cost., presidio degli equilibri di finanza pubblica, si sostanzia in una vera e propria clausola generale in grado di colpire tutti gli enunciati normativi causa di effetti perturbanti la sana gestione finanziaria e contabile” (sentenza n. 192 del 2012) (Corte costituzionale, sentenza n. 184/2016).
Tanto premesso, appare evidente che il criterio in base al quale consentire o definire i limiti dell’applicazione delle quote vincolate, destinate o accantonate del risultato di amministrazione, non può che essere quello della copertura effettiva (recte della c.d. “sostenibilità finanziaria”): è necessario, cioè, che la nuova spesa che si intende effettuare e “coprire” col risultato di amministrazione, abbia riscontro in risorse reali (crediti o cassa), effettivamente ancora presenti nel risultato di amministrazione o, in alternativa, ripristinate con un’apposita manovra di bilancio.
Ciò presuppone una verifica sul “saldo contabile primario” (o SCP) che è espresso dal risultato di amministrazione di cui alla “Riga A”. Tale saldo esprime la misura reale del “risparmio” e delle economie che derivano dagli esercizi precedenti, mediante una differenza secca tra crediti, cassa e passività, risparmi ed economie “prenotati” medianti i fondi e che possono essere “applicati”, tramite il risultato di amministrazione, in esercizi successivi.
Si può dunque affermare che un ente può applicare in entrata il risultato di amministrazione, a titolo di quota vincolata o accantonata, solo se il SCP risulti: a) positivo; b) o comunque capiente per sostenere la spesa (futura) vincolata o il rischio per cui si è proceduto, in prospettiva, alla creazione di un “fondo”.
Pertanto:
a) in caso di incapienza del risultato di amministrazione (“Riga E” del prospetto dimostrativo)
b) e ove il disavanzo non sia applicato nella sua interezza (in deroga alla regola dell’immediato pareggio) per effetto di “norme spalma-debiti”
c) non è possibile applicare automaticamente quote del risultato di amministrazione, ma occorre limitarsi ad applicare quote del risultato di amministrazione in una misura non superiore a:
– il saldo di cui alla “Riga A” del prospetto di sintesi del risultato di amministrazione (SCP). Esso, infatti, esprime risorse esistenti (crediti e cassa) che sopravanzano passività effettivamente contratte (residui passivi) o in corso di perfezionamento/maturazione in termini di esigibilità (FPV). Si tratta di spese per cui l’amministrazione ha avviato un crono-programma di realizzazione per le quali le risorse “prenotate”, secondo la disciplina legislativa, possono essere applicate in entrata, negli esercizi successivi, senza discriminare tra l’ipotesi in cui l’ente si trovi in avanzo o in disavanzo. Quella del FPV, infatti, è una disciplina che si giustifica in un’ottica premiale, per “efficientare” i processi di spesa e a tutela dell’affidamento di coloro i quali stanno per contrarre obbligazioni con la pubblica amministrazione, purché la spesa sorga e si realizzi nei tempi previsti);
– al disavanzo concretamente applicato sia pure ridotto per effetto di norme “spalma-debiti”. Infatti, anche se tali norme neutralizzano la capacità del disavanzo di recuperare immediatamente l’equilibrio di bilancio turbato, non può non tenersi conto della sia pure più ridotta manovra di bilancio realizzata attraverso l’applicazione di una quota minore di disavanzo, stabilita da un piano di rientro assentito secondo legge. Per tale ragione, la quota (vincolata, destinata, accantonata) applicabile a previsione deve tenere conto della “quota” di disavanzo effettivamente applicata (DA).
Tale montante complessivamente determinato (SCP+DA), peraltro, non può essere applicato indiscriminatamente.
La prefata sommatoria algebrica definisce lo spazio finanziario per l’applicazione del risultato di amministrazione negli esercizi successivi, per spesa obbligatoria divenuta esigibile negli anni successivi. Il richiamato “spazio”, mentre può essere certamente applicato nella sua integralità (e sino a concorrenza) a finanziamento di spesa di investimento, nel caso in cui l’ente abbia dato riscorso ad anticipazioni straordinarie di liquidità, per il finanziamento di spesa di diversa natura, tale montante va comunque nettato del fondo anticipazioni liquidità straordinaria (FAL).
Quest’ultimo va altresì diminuito della quota di ammortamento del FAL medesimo prevista per l’anno in programmazione (che si rammenta, deve essere comunque recuperata attraverso il disavanzo applicato, come evidenziato dalla Sezione delle Autonomie, deliberazione n. 28/2017/QMIG).
In caso di “spesa diversa da investimento”, la necessità di sottrarre dal SCP il FAL si pone perché altrimenti si realizzerebbe una elusione del divieto di cui all’art. 119, comma 6, Cost, (Corte costituzionale, n. 181/2015 e n. 89/2017); norma per la quale, si rammenta, è stata elaborato la nota interpretazione pretoria delle norme sui mutui trentennali concessi dalla Cassa depositi e prestiti ex D.L. n. 35/2013 ed interventi normativi similari della lettura. L’obiettivo di tale interpretazione, in virtù della quale i residui attivi “liberati” dal pagamento dei debiti con l’anticipazione straordinaria di liquidità non possono dare luogo ad una “espansione della capacità di spesa” (per effetto della formazione di risultato di amministrazione applicabile negli esercizi successivi) verrebbe frustrata da un’applicazione del maggiore SCP generato dall’anticipazione straordinaria di liquidità, a beneficio di spesa corrente.
Detto in altri termini, diversamente operando ed ammettendo l’impego integrale del montante sopra determinato (SCP+DA) a finanziamento anche di spesa corrente, l’ente avrebbe recuperato la stessa capacità di spesa che il FAL neutralizza sulla Riga E e sulla Riga A, per il solo fatto di essere spesa obbligatoria e non anche, come richiede la Costituzione, spesa di investimento.
In questo modo, l’interpretazione costituzionalmente conforme delle anticipazioni straordinarie di liquidità concesse dal Legislatore, necessaria per non violare l’art. 119 comma 6 Cost., verrebbe “elusa” tramite la tecnica dell’applicazione negli esercizi successivi di quote del risultato di amministrazione.
La provvista finanziaria vincolata data dal montante SCP+DA, peraltro, non va invece abbattuta del FCDE, la cui natura prudenziale concorre alla determinazione del risultato di amministrazione (“Riga E”) in chiave depressiva, concorrendo a definire la misura del disavanzo da applicare (DA).
Si deve tra l’altro tenere conto che proprio sull’impatto di tale disavanzo il Legislatore è intervenuto con apposite norme “spalma-debito”, di cui, a diritto vigente, non può non prendersi atto. Infatti, l’impatto del FCDE è stato “neutralizzato” in termini di impatto sugli esercizi successivi, in larga parte, tramite la disciplina del ripiano del riaccertamento straordinario, il cui “maggior disavanzo” (art. 3, comma 16, D.lgs. n. 118/2011 e art. 1 d.m. 4 aprile 2015) è generato in larga parte e principalmente proprio dall’impatto del nuovo istituto del FCDE (cfr. in argomento le osservazioni in SRC Campania nella decisione n. 240/2017/PRSP). In definitiva il margine di quota applicabile (QA) del SCP non può contemplare una diminuzione per FCDE, il cui impatto, tramite il riaccertamento straordinario, è stato spalmato in un DA “trentrennalizzato”.
Si pone altresì questione per il FCDE di nuova formazione, nel caso in cui il montante sia aumentato successivamente. A parte il fatto che anche in questo caso sono intervenute norme spalma-debito che hanno assorbito (anche) l’impatto di tale componente, il FCDE concorre comunque a determinare la misura della quota applicabile (QA) definendo da misura dei vari disavanzi applicabili, compresi quelli di nuova formazione,
Infine, queste considerazioni “algebriche”, convergono con una riflessione di sistema: in assenza di una disciplina espressa, occorre conciliare il principio di prudenza, di cui è espressione il FCDE, con il principio di efficacia e continuità dell’azione amministrativa (alla base del sistema dei vincoli), che in questo caso, deve prevalere.
In generale, dunque, ad avviso della Sezione campana, il FCDE non deve concorrere a nettare il SCP, in quanto la sua funzione è impedire l’applicazione di quote “non vincolate”. Con una diversa interpretazione rigoristica, si correrebbe infatti il rischio di generare una privazione ed un’inefficienza certa (la non effettuazione di una spesa dovuta e obbligatoria) a fronte di un rischio di non realizzazione solo eventuale ed incerto (FCDE).
Del resto, lo stesso D.lgs. n. 118/2011, Allegato 1, afferma al punto 9 che «Il principio della prudenza non deve condurre all’arbitraria e immotivata riduzione delle previsioni di entrata […]. Ciò soprattutto nella ponderazione dei rischi e delle incertezze connessi agli andamenti operativi degli enti e nella logica di assicurare ragionevoli stanziamenti per la continuità dell’amministrazione».
Va da sé che non è possibile applicare in nessun modo quote del risultato di amministrazione se il SCP è originariamente negativo o risulta tale al netto degli accantonamenti obbligatori per legge (nel nuovo sistema del D.lgs. n. 118/2011) con funzione neutralizzatoria, ed in particolare, al netto del fondo anticipazioni di liquidità (FAL).
In buona sostanza, la quota di risultato di amministrazione applicabile in entrata (QA) a copertura di spesa da contrarre nel nuovo esercizio (“quota vincolata” o “destinata”) o della realizzazione di rischi individuati e quantificati in base alla discrezionalità tecnica dell’ente (quota accantonata a FR) è pari alla seguente formula algebrica:
QA x+1=SCP anno x +DA x+1.
Dove:
QA x+1= quota del risultato di amministrazione applicabile nell’esercizio successivo;
SCP anno x= saldo contabile primario a rendiconto;
DA x+1= disavanzo complessivo applicato nell’anno in programmazione.
Tale margine QA x+1, che costituisce il tetto massimo di applicabilità, può essere in parte destinato a spesa corrente vincolata, solo nella misura massima data dalla seguente equazione:
QAC x+1=SCP anno x-FALanno x+QMFALx+1+DA x+1.
Dove:
QAC x+1= quota del risultato di amministrazione applicabile nell’esercizio successivo per spesa diversa da investimento;
SCP anno x= saldo contabile primario a rendiconto
FALanno x= Fondo anticipazioni straordinarie di liquidità a rendiconto;
QMFALx+1= quota di ammortamento dell’anticipazione straordinaria di liquidità prevista per l’anno in programmazione;
DA x+1= disavanzo complessivo applicato nell’anno in programmazione.
In buona sostanza, in condizione di disavanzo e in regime di “spalma-debito” (tale da non determinare un non immediato recupero dello squilibrio), gli enti possono continuare ad applicare quote vincolate/destinate/accantonate del risultato di amministrazione, sempreché:
- sussista un SCP positivo, maggiorato della quota di disavanzo applicato,
- con priorità assoluta per la spesa di investimento, spesa che per definizione non determina una distruzione di ricchezza, ma trasforma in valori patrimoniali la ricchezza finanziaria del conto del bilancio, senza deprimere i valori del bilancio complessivamente considerato ed aumentando la ricchezza collettiva.
Nell’ambito di tale spesa massima finanziabile con il risultato di amministrazione applicato (corrispondente a QA x+1) la spesa obbligatoria corrente (o comunque diversa da investimento) finanziabile non può essere comunque superiore a QAC x+1, che si ottiene mediante l’aggiunta, all’equazione, del fondo di neutralizzazione per anticipazioni straordinarie di liquidità.
Il favor per la spesa d’investimento, in situazioni di disavanzo, del resto, oltre che dall’interpretazione costituzionalmente orientata del sistema del D.lgs. n. 118/2001, è coerente con la disciplina del più recente spalma-debiti, in particolare con le disposizioni dell’art. 1, comma 779, della legge 27 dicembre 2017, n. 205, che – in aggiornamento di quanto già disposto dall’art. 9, comma 5, del D.L. n. 78/2015 (conv. L. n. 125/2015) – pone come ulteriore condizione l’impegno, da parte di ciascuna regione che sia avvale di tale facoltà, «a riqualificare la propria spesa attraverso il progressivo incremento degli investimenti».
Resta inteso che se da un lato le “norme spalma-debiti” autorizzano ad applicare una misura inferiore del disavanzo integrale, rimane in facoltà dell’ente aumentare la quota di avanzo applicato (DA) in modo da riequilibrare la sopresposta equazione, recuperando anzitempo le risorse vincolate, destinate ed accantonate che le precedenti gestioni hanno “bruciato” e di fatto destinato ad altri scopi, garantendo che la spesa obbligatoria venga pienamente contratta ed eseguita, con pieno recupero di efficienza e di efficacia dell’azione della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).
6. La sindacabilità delle coperture in sede di giudizio di parifica Effetti transitori e permanenti della legge di previsione e la “non parifica tecnica”. Nel caso di violazione delle norme sulle coperture di bilancio, peraltro, non occorre impugnare, in sede di rendiconto, preliminarmente, la legge di previsione a monte. Ciò sulla base di un ragionamento che ad avviso della Sezione campana rende rilevanti per il giudizio di parifica solo gli effetti “non transeunti” delle leggi di previsione a monte, nella continuità di bilancio.
Infatti, secondo questo ragionamento che di seguito si espone, nel caso di violazione del principio di copertura che sta a monte una posta di spesa, ad essere rilevanti, è direttamente la disciplina costituzionale dell’equilibrio di bilancio (ed i principi contabili che ne costituiscono parametro interposto) e non la legge di (di bilancio di) previsione regionale.
Segnatamente, la legge regionale che ha approvato il bilancio di previsione non sempre è rilevante nei giudizi di rendiconto, in quanto occorre distinguere tra “effetti transitori” ed effetti “permanenti” di tale legge. Con tale distinzione si intende isolare e distinguere le conseguenze della legge di bilancio che si esauriscono nell’esercizio, da quelli che condizionano più esercizi. Solo i secondi continuano a dipanarsi a valle e nei successivi esercizi, tanto da costituire il primo parametro di riferimento per il giudice contabile in sede di parificazione.
Costituisce effetto “transitorio” (rectius, a tempo determinato), l’autorizzazione di spesa concernente un singolo esercizio già concluso, sebbene emessa sul falso presupposto di una copertura effettiva. In caso di intempestiva impugnazione da parte del Governo e da parte della Corte in sede di controlli di legittimità-regolarità sulla legge di previsione, l’effetto inclusivo nel bilancio si stabilizza, per esaurimento dell’effetto autorizzatorio. Esso non è reversibile per un’esigenza di certezza dei rapporti giuridici che sono entrati nel perimetro di bilancio, rapporti i quali possono semmai essere espunti con l’operazione di riaccertamento ordinario, a consuntivo, per l’avvenuta constatazione dell’assenza originaria o sopravvenuta del titolo.
Il problema di illegittimità (costituzionale) a previsione, peraltro, ridonda in termini di squilibrio sui conti a consuntivo e sulla esigenza di puntuali e tempestive misure di salvaguardia attraverso leggi di bilancio successive. In questa prospettiva appare collocarsi la nota e risalente, seppur per molti versi superata, C. cost. sentenza n. 142/1968.
Per altro verso, rimangono rilevanti le autorizzazioni pluriennali e/o quelle che radicano un titolo sostanziale di spesa (così C. cost. n. 244/1995), ovvero quelle che determinano, sulle poste e sui capitoli, ad esempio, una determinata allocazione contabile con effetti sul calcolo dei saldi, alterando gli equilibri in modo rilevabile a consuntivo (così, ad esempio, nella sentenza C. cost. n. 181/2015 e n. 89/2017)
La legge di previsione, quindi, costituisce norma rilevante, in sede di rendiconto, nella misura in cui vengono in considerazioni effetti permanenti o continuati.
Tale distinzione sugli effetti, infatti, consente di ricondurre ad unità l’apparente distante giurisprudenza del Giudice delle leggi che infatti attiene (ed analizza) diversi profili ed effetti delle leggi di previsione impugnate.
Se questo è vero, tuttavia, la violazione delle norme costituzionali non può essere non rilevata dallo stesso giudice comune, innestando, col suo accertamento, i rimedi ordinariamente previsti dal sistema.
Infatti, le norme sulla copertura e sull’equilibrio costituiscono “norme sulla normazione” per la formazione non solo della legge di previsione, ma anche di rendiconto. In particolare, le richiamate regole sono norme a fattispecie astratta completa (“clausola generale”, «in grado di operare pure in assenza di norme interposte», C. Cost., sent. n. 192/2012), quindi direttamente applicabili al caso concreto esaminato dal giudice contabile.
Nel caso del bilancio di previsione, l’illegittimità nella applicazione delle quote del risultato di amministrazione “non libero”, per difetto di capienza (e quindi il difetto di copertura delle spese vincolate o dei rischi trasformatisi in passività attuali) rende di dubbia costituzionalità la legge che lo approva, aprendo la via a questioni di legittimità costituzionale, in via incidentale o principale, volte ad evitare una pseudo-copertura di spesa in programmazione. Tale illegittimità, infatti, è destinata ad erodere il risultato di amministrazione, a causa di un deteriore risultato di gestione e, eventualmente, ad aggravare qualità (transito del disavanzo dalla Riga E alla Riga A) e quantità del disavanzo a rendiconto, al termine della gestione. Il tal caso, solo la giurisdizione costituzionale può intervenire per interdire l’azione politica assunta con “forme di legge”. La giurisdizione del Giudice delle leggi, infatti, non è caratterizza solo dal parametro (che è di rango costituzionale, ma talvolta, tramite parametri “interposti”, anche di rango inferiore), ma anche e soprattutto, dalla “materia” costituita dalla natura dell’atto di cui si sindaca, vale a dire una legge o un atto avente forza di legge (art. 134, comma 1, Cost.).
In sede di rendiconto, la giurisdizione della Corte dei conti si esercita rispetto al “fatto” amministrativo e pre-legislativo della rappresentazione contabile, nella forma del rendiconto. In tale ambito, la giurisdizione del giudice contabile, come in generale del giudice comune, non esclude il ricorso, ma anzi primariamente necessita, del riferimento alle norme costituzionali, tanto con l’interpretazione conforme (Corte costituzionale, ex plurimis, sent. n. 356/1996; sentt. n. 219/2008 e n. 1/2013), quanto per ipotesi di c.d. drittwirkung, fenomeno giuridico per cui le norme costituzionali sono in grado di generare fattispecie di diretta applicazione su soggetti dell’ordinamento (cfr. Cass., sez. III, sent. 10 maggio 2001, n. 6507). In quest’ottica, disposizioni costituzionali a fattispecie completa (in materia di contabilità, ad esempio, il divieto di indebitamento per spesa diversa da investimento, cfr. SRC Campania n. 1/2017/PRSP) legittimano l’applicazione diretta delle fonti di rango super-primario da parte del giudice comune, con l’effetto che il giudice contabile, ove ravvisi che il rendiconto sia antinomico rispetto a leggi che disciplinano la rappresentazione contabile e/o con il parametro costituzionale dell’equilibrio, non può emettere un dispositivo di “parificazione” della posta finanziata.
Perché ciò accada è necessario che si verifichino due condizioni concrete: a) che la norma costituzionale sia completa; b) che non esista una diversa legge, statale e/o regionale, applicabile o rilevante, eventualmente in violazione con la Costituzione (in questo caso non può essere elusa la giurisdizione del Giudice delle leggi).
La prima condizione certamente si verifica con riferimento al parametro costituzionale dell’equilibrio e dei suoi corollari sopra esposti (in termini di limiti all’applicazione di quote vincolate e accantonate in caso di disavanzo).
Come si è detto, ci si trova in presenza di “norme sulla normazione” a fattispecie completa (trattandosi, per l’equilibrio, di una “clausola generale”, «in grado di operare pure in assenza di norme interposte», C. Cost., sent. n. 192/2012).
La seconda condizione si verifica anche con riguardo alla legge di previsione regionale a monte del rendiconto, in quanto, qui viene in rilevo solo un effetto transitorio, già consumato e stabilizzato, ridondante in uno squilibrio a consuntivo.
Detto in altri termini, l’autorizzazione a prenotare lo spazio finanziario in bilancio esaurisce il suo effetto con il ciclo di bilancio dell’esercizio di pertinenza: non si sindaca, infatti, il titolo, né la contabilizzazione, né si intende, in sede di rendiconto sindacare l’autorizzazione che ha legittimato la prenotazione finanziaria autorizzata di risorse in fase di gestione. Esse non sono in discussione, ma si sindaca l’esito che tale spesa genera sul risultato di amministrazione, effetto che deve essere accertato a consuntivo, innestando le necessarie misure di salvaguardia, che primariamente devono muovere dal riconoscimento della causa dello squilibrio medesimo e che il giudice contabile non può non rilevare, giungendo ad un giudizio di non parificazione.
In questo caso, a differenza dell’accertamento di squilibri non conclamati in poste che confluiscono nel risultato di amministrazione, la “non parifica” (e quindi l’accertamento di illegittimità-irregolarità) di poste di spesa che:
- nel bilancio abbiano già avuto confluenza in forza di autorizzazioni di legge già esaurite;
- di cui l’assenza di copertura sia stata conclamata nel peggioramento del risultato di amministrazione (o addirittura in un disavanzo che l’ente sta già recuperando ai sensi di legge),
è una “non parifica” esclusivamente “tecnica”, nel senso che non importa obblighi di conformazione di tipo positivo sull’amministrazione regionale, in termini di modifica del disegno di legge di rendiconto.
Gli effetti di una siffatta “non parifica”, peraltro, non sono di minore importanza e rilievo, in quanto discendono direttamente dalla violazione del precetto dell’equilibrio. Essi sono di due tipi, entrambi collegati al carattere pubblico del bene tutelato.
Da un lato, l’accertamento di una simile illegittimità-irregolarità ha un effetto informativo e referente: il carattere pubblico del bilancio presuppone una completa trasparenza sulle cause degli andamenti della finanza (in questo caso, in merito al peggioramento del risultato di amministrazione), sia sotto il profilo della legalità (compliance) che sotto quello della responsabilità di mandato (accountability, Corte cost. n. 49/2018). Con tale accertamento in giudizio è infatti possibile: a) indicare le cause della formazione di un eventuale disavanzo già confluito nel risultato di amministrazione; b) innestare un comportamento correttivo in sede di successivi bilanci da parte del Governo regionale, realizzando condizioni di trasparenza tecnica nei confronti del Consiglio regionale che deve indirizzarne la politica di bilancio.
Per altro verso, l’accertamento di una siffatta illegittimità-irregolarità di poste passive, ha un effetto conformativo di tipo negativo, nel senso che importa il divieto di reiterare prassi contabili la cui costituzionalità, in forza di tale accertamento, si presume dubbia. In tal modo, non solo si forniscono al Governo strumenti di pronta lettura di pratiche in corso eventualmente contrarie alla Costituzione, rispetto a norme di coordinamento della finanza pubblica (art. 127 Cost.), ma si delinea un caso in cui tanto lo Stato (Corte cost. n. 107/2016), quanto la Corte di conti (controlli sul bilancio di previsione sulla base dei residui poteri di cui all’art. 1 commi 3 e 7 del D.L. n. 174, al netto del dichiarato incostituzionale “blocco della spesa”, C.cost. sent. n. 39/2014) hanno il dovere di sollevare una questione di costituzionalità attivando la giurisdizione costituzionale.
Per tale ragione, di seguito, si procede ad individuare le poste di spesa che sono state autorizzate in assenza di copertura, individuando, attraverso un giudizio di non parifica, un limite alla programmazione futura di spesa con analoga tecnica.
Inoltre, tale spesa, come si vedrà, ha contribuito “illegittimamente” al peggioramento del risultato di amministrazione, poiché in violazione di legge, e segnatamente in violazione dell’art. 9, comma 5, del D.L. n. 78/2015, il quale consentiva di ricorrere allo straordinario piano di rientro dallo stesso previsto con “l’impegno formale di evitare la formazione di ogni ulteriore potenziale disavanzo”, impegno che è stato inadempiuto con l’applicazione di quote del risultato di amministrazione che non erano capienti e che non costituivano risorse effettive. Infatti, come è stato sovra evidenziato, il risultato di amministrazione è ulteriormente peggiorato nel 2015.
Tale inadempimento, sia pure sprovvisto di sanzione, non può non essere accertato dalla Sezione in sede di rendiconto, per ogni valutazione da parte dei competenti organi dell’ordinamento, come sopra tratteggiato.
7. La natura del “rischio” assicurato dal Fondo crediti dubbia esigibilità (FCDE) e la non abbattibilità del monte residui finali da svalutare in base a tardive riscossioni. Non è possibile, in caso di ritardata rendicontazione, scomputare dal monte dei residui finali da svalutare, quelli incassati successivamente alla data legale per l’approvazione del rendiconto. Ciò deve essere escluso per due ragioni: da un lato in base al dato letterale della legge (ed in particolare l’esempio n. 5 del D.lgs. n. All. 4/2 del D.lgs. n. 118/2011), per altro verso, perché non è accettabile dedurre tale facoltà dalla natura di “fondo rischi” del FCDE, affermando il relativo rischio (quello di inesigibilità) risulta estinto al momento della costituzione del fondo. Il FCDE non ha, infatti, la natura generica di un fondo rischi ma quella specifica di un fondo rettificativo. Sebbene il Legislatore, nel principio contabile 4.2, nell’esempio 5, parli dello stesso alla stregua di un “fondo rischi” obbligatorio, tale affermazione classificatoria, di per sé non vincolante per l’interprete, va letta alla luce del suo funzionamento normativo. Il rischio assicurato, infatti, come dimostra il calcolo ponderale per cluster disciplinata dall’esempio n. 5, non è la mancata riscossione di un credito (ed il suo atomistico nomen verum o bonum) ma l’incapacità organizzativa e ambientale di riscuotere. Tale rischio, infatti, non è un rischio estemporaneo (che può ragionevolmente cessare) ed estrinseco (fuori dal soggetto a rischio, vale a dire l’ente regionale) ed infatti non viene meno con la riscossione del singolo credito utilizzato per la base di calcolo del coefficiente di svalutazione.
È un rischio:
- intrinseco, che non riguarda un evento, ma una qualità dell’ente che attraverso tale fondo si assicura da un proprio limite (un vizio di organizzazione),
- e atemporale (nel senso che è già attuale e non occorra si verifichi).
Il FCDE è quindi un fondo rischi obbligatorio, ma atipico, perché non assicura su un evento futuro ed incerto, ma su un rischio costante ed attuale, di organizzazione: per tale ragione esso si liquida con criteri standard, che sono storici solo nel senso che si assume l’esperienza passata (ed eventi pregressi) come criterio di liquidazione e valutazione di una condizione presente.
Detto in altri termini, il rischio assicurato non è quello di credito (in dipendenza dalle qualità del debitore e del mercato), ma il rischio-capacità/incapacità di attuare una situazione giuridica, un credito. In estrema sintesi, il FCDE misura il rischio di ineffettività di una porzione importante dell’ordinamento regionale, vale a dire del bilancio ed in particolare dei suoi crediti.
Per tale ragione il FCE è un fondo obbligatorio che ha la funzione specifica di misurare il valore (fondo rettificativo) di un bene tipicamente in valuta che è il credito, senza che in nessun modo si debba distinguere tra FCDE a preventivo e a consuntivo, come pure ha tentato in sede contro-deduttiva di fare la Regione.
8. Il Riaccertamento ordinario, la presunzione di inesigibilità o di esistenza dell’obbligazione e la sua motivazione. Il riaccertamento dei residui attivi (e passivi) consiste infatti nella verifica delle ragioni del mantenimento di ciascuno di essi in bilancio (art. 3, comma 4, D.lgs. n. 118/2011, nonché relativo Allegato 4/2, § 9.1.).
In virtù del principio di prudenza (Allegato 1 D.lgs. n. 118/2011, punto 9), peraltro, tale importante atto si declina, per i residui attivi e per quelli passivi, secondo criteri invero opposti. Mentre per i residui attivi , trascorso l’esercizio finanziario, scatta una vera e propria “presunzione di inesigibilità” che obbliga a “ri-accertare” il titolo per il mantenimento in bilancio e pertanto a “motivare” le ragioni del mantenimento, per i residui passivi vale esattamente il reciproco: un debito si presume esistente sino a che non se ne motivi lo stralcio con una istruttoria che ne motivi l’insussistenza (perché il debito non sussiste più o è stato erroneamente impegnato).
9. Residui attivi verso la pubblica amministrazione. L’applicazione dei criteri tradizionali di stralcio, ante D.lgs. n. 118/2011. Come è già stato evidenziato nel giudizio di parifica esitato con la decisione SRC Campania n. 285/2016/PARI «se è vero, da un lato, che si tratta di crediti che non possono essere oggetto di svalutazione ai sensi del principio contabile applicato n. 4/2, §, 3.3, ai sensi del quale “Non sono oggetto di svalutazione:
– i crediti da altre amministrazioni pubbliche, […]” (enfasi aggiunta),
per altro verso, gli stessi crediti non possono godere dello “standstill” previsto dagli stessi principi contabili ai fini dello stralcio. Infatti, solo per i crediti per cui è introdotto il meccanismo della svalutazione obbligatoria standard (cioè secondo meccanismo presuntivi individuati negli stessi principi contabili applicati) vale la regola per cui «Trascorsi tre anni dalla scadenza di un credito di dubbia e difficile esazione non riscosso, il responsabile del servizio competente alla gestione dell’entrata valuta l’opportunità di operare lo stralcio di tale credito dal conto del bilancio, riducendo di pari importo il fondo crediti di dubbia esigibilità accantonato nel risultato di amministrazione» (All. 4/2, § 9.1, enfasi aggiunta).
Diversamente, per i crediti esenti da svalutazione standard deve applicarsi, come già nella vecchia contabilità, la regola per cui ove essi si ritengano in fatto «assolutamente inesigibili» o “insussistenti” (prescrizione), si deve procedere eliminando gli stessi dalle scritture finanziarie e dai documenti di bilancio attraverso la delibera di riaccertamento dei residui».
10. Il Fondo rischi (FR) con funzione rappresentativa degli equilibri effettivi, in ragione di debiti fuori bilancio. I debiti fuori bilancio, sino al riconoscimento, costituiscono “passività esterne” che però, in presenza di una sentenza/provvedimento giurisdizionale esecutivo, hanno un carattere giuridico-certo (in quanto titolo per la riscossione e l’aggressione del patrimonio dell’ente pubblico).
In tal caso vi è un obbligo di immediata attivazione della procedura di riconoscimento del debito. Se però il riconoscimento non è avvenuto per ragioni soggettive (ritardo imputabile all’ente) o oggettive (difficoltà a reperire le coperture), questa situazione può essere rappresentata nel Fondo rischi e oneri (FR), il quale deve contenere, almeno limitatamente a questa ipotesi (sentenze esecutive), nella sua quantificazione, un accantonamento pari al 100% del valore del debito liquidato dal giudice, in quanto non si tratta di passività solo “potenziali”, ma invero certe (cfr. SRC Campania n. 238, 240, 249/2017/PRSP, SRC Liguria n. 103/2018/PRSP). Un diverso accantonamento, in termini quantitativi, deve quindi essere congruamente motivato.
Analogamente, per garantire la veridicità degli equilibri ad una certa data, il FR, in caso di cronico ritardo nella rendicontazione, deve essere utilizzato, anche nel caso in cui il debito sia stato già riconosciuto e coperto in esercizi successivi. In tale caso, il FR viene avvalorato sebbene si abbia certezza che il “rischio” per cui si procede ad accantonamento, negli altri esercizi, sia stato già assorbito dal bilancio (e quindi non è più attuale); invero, in tale ipotesi, tale istituto viene “prestato”, in analogia e in via surrogatoria, contro un nuovo rischio, ovvero quello di alterazione della “verità” delle scritture. In tale ipotesi si tratta invero di assicurare la prevalente esigenza di veridicità del rendiconto e di certificazione degli equilibri, ai fini, ad esempio, della verifica del raggiungimento degli obiettivi intermedi di piani di rientro del disavanzo, ovvero, di non alterazione di altri rilevanti saldi di finanza pubblica.
11. La cassa delle regioni è anch’essa soggetta a vincoli. Come più ampiamente espresso in SRC Campania Sezione, n. 285/2016/PARI e n. 64/2017/PARI, ed SRC Campania n. 59/2018/PAR, il vincolo impresso sulla risorsa non riguarda solo il credito, ma, a maggior ragione, la provvista liquida che si forma a valle dell’incasso ed impone una speciale e sostanziale verifica degli equilibri, in particolare, chiede di verificare che le disponibilità di tesoreria ed i crediti siano capienti al lordo di tali vincoli, che devono all’uopo essere registrati man mano che si procede ad accertamento ed incasso.
In proposito, giova evidenziare la necessità che tale equilibrio sussista non solo per competenza (delta tra debiti e crediti), ma anche per cassa, emerge da numerosi indici normativi.
In primo luogo, l’art. 40 del D.lgs. n. 118/2011 richiede che il bilancio di previsione, da approvare in pareggio, deve contenere sia le previsioni di competenza che quelle di cassa (sebbene limitatamente al primo anno); in secondo luogo, l’ordinamento contabile, nello specificare il tipo di equilibrio che il bilancio di previsione deve assicurare (art. 42, comma 1 D.lgs. n. 118/201, art. 9 L. n. 243/2012) chiede espressamente che tale equilibrio sussista per cassa e si esprima in un “saldo” e in un fondo cassa finale “non negativo”.
Sebbene la cassa sia un bene della vita che per definizione può sussistere o mancare (esprimendo valori nulli o positivi), evidentemente, il Legislatore, così esprimendosi, ha ammesso che essa possa essere “virtualmente” negativa per effetto di eventi che possono avere eroso la sua consistenza “qualitativa”, in base a specifici obblighi contabili.
12. Il sistema sanitario come sistema derogatorio alla competenza finanzia potenziata e all’obbligo di costante verifica della sostenibilità finanziaria: gli impegni tecnici di destinazione a tutela dei LEA. Il sistema contabile del Titolo II (ed in particolare il sistema dell’impegno improprio a pareggio e di destinazione), infatti, evita che la spesa sanitaria cada nelle forche caudine dei limiti all’applicazione delle economie vincolate, in caso di incapienza del risultato di amministrazione (recte, come sopra evidenziato, del SCP). Una volta che una spesa è impegnata, il finanziamento, in termini di saldo risulta stabilmente finanziato, a prescindere dalle vicende del disavanzo, cui la stessa spesa concorre e che andrà recuperato a norma di legge.
In caso di surplus, dunque, occorre verificare che un finanziamento destinato all’erogazione di spesa costituzionalmente necessaria non sia stato destinato ad altro, ovvero, in caso di economie, a finanziamento del recupero del disavanzo di gestione della parte “ordinaria” di bilancio.
Né tale sbilancio, infatti, può derivare dalle dinamiche del riaccertamento ordinario, come le considerazioni che seguono cercano di chiarire.
Poiché il sistema degli impegni impropri di destinazione “a pareggio” genera “residui passivi tecnici”, per ciascun anno di competenza, in sede di riaccertamento ordinario, per il “perimetro sanitario”: a) dovrà verificarsi la giustificazione a monte dei residui attivi (cioè se il titolo per l’accertamento delle entrate è esistente o ancora esistente o ha subito modificazioni); b) così come previsto dal comma 2 lettera a) dell’art. 20 del D.lgs. 118/2011, «Ove si verifichi la perdita definitiva di quote di finanziamento condizionate alla verifica di adempimenti regionali, ai sensi della legislazione vigente, detto evento è registrato come cancellazione dei residui attivi nell’esercizio nel quale la perdita si determina definitivamente». La cancellazione del residuo attivo, in pratica, costituisce titolo per la cancellazione del residuo passivo, nel presupposto che l’obbligazione passiva non si sia nel frattempo perfezionata; diversamente, c) per quel che concerne i residui passivi, oltre al caso esposto al precedente punto b), nel caso in cui l’obbligazione si sia nel frattempo giuridicamente perfezionata, consolidando un titolo “proprio”, i residui passivi “ri-generati” (cioè non più funzionali alla destinazione di spesa ma al pagamento di una obbligazione sorta ed esistente) non potranno più essere cancellati contestualmente alla eventuale eliminazione dei residui attivi. In tal caso, l’evento della cancellazione dei residui attivi per perdita del finanziamento genera semmai – in conto residui – uno squilibrio negativo (e non un surplus) ed impatta quindi, potenzialmente, sul risultato di amministrazione dell’intero perimetro regionale.
Per contro, il riaccertamento ordinario non può generare surplus se non in caso di economia effettiva nell’esecuzione della prestazione. Solo in tal caso, e verosimilmente dopo molti anni, si possono verificare squilibri di carattere positivo e significativo che, comunque, devono generare risultato di amministrazione vincolata alla erogazione dei LEA e delle altre prestazioni sanitarie.
In buona sostanza, in linea di massima, per ciascuna competenza finanziaria di provenienza, deve potersi verificare la corrispondenza tra residui attivi e passivi; mai un’eccedenza dei primi sui secondi; viceversa, in caso di deficit, bisognerà verificare le ragioni della mancanza delle risorse a copertura della spesa, in un’ottica di successiva programmazione.
12.1. Ritardato accredito ed accertamenti di risorse destinate da arte dello Stato. Impegni a “sfondamento” dell’autorizzazione di spesa della legge regionale. Come è noto il bilancio di previsione costituisce autorizzazione sul piano della spesa, mentre non è mai precluso l’accertamento in misura superiore alla previsione e allo stanziamento di entrata.
Parallelamente, il regime previsto dall’art. 20 D.lgs. n. 118/2011 è una disciplina giuscontabile che ha una particolare funzione nell’ottica della tutela dell’uguaglianza della fruizione dei LEA su tutto il territorio nazionale, fruizione che deve essere garantita attraverso spesa che si deve considerare coperta e autorizzata, a prescindere dalla vicenda del disavanzo di ciascuna singola regione. Per tale motivo si deve ritenere che la regola da esso statuita sia una regola speciale di coordinamento di finanza pubblica, destinata a prevalere sulla limitazione costituita dal tetto dell’autorizzazione di spesa di cui alla legge regionale di bilancio.
Questa prevalenza, in estrema sintesi, si giustifica su tre ragioni:
- la prima è che, ai sensi dell’art. 20 D.lgs. n. 118/2011, il titolo per l’impegno di spesa, è costituita direttamente dall’accertamento;
- la seconda, come si è detto, è che l’accertamento – per regola generale della contabilità pubblica – non subisce limiti dalle previsioni dello stanziamento di entrata regionale;
- la terza, è che occorre considerare che l’impegno improprio di destinazione è lo strumento tecnico per evitare che il finanziamento statale, in situazioni di grave disavanzo e SCP negativo, finisca per finanziare il disavanzo pregresso e non i LEA, garantendo così l’erogazione della spesa a beneficio degli utenti, anche quando corrente e non di investimento.
In casi simili – sia pure limitatamente ai finanziamenti statali erogati ai fini e nel rispetto del finanziamento dei LEA, in ottemperanza alla prescrizione costituzionale costituita dal combinato disposto degli art. 3 e 117, comma 2 lett. m) Cost. – assumere l’impegno improprio di destinazione, anche a sfondamento dello stanziamento di spesa della legge regionale, applicando rigorosamente l’art. 20 del D.lgs. n. 118/2011, che prevale per “specialità”.
13. La sindacabilità della spesa di secondo livello (degli organi strumentali con separato bilancio). Questione di legittimità costituzionale per la spesa per il trattamento accessorio per il personale del Consiglio regionale. Come è noto, il sistema di finanziamento regionale della spesa per il personale è frazionato, in quanto il bilancio dell’amministrazione e il bilancio del Consiglio, che della Regione è organo, sono separati in punto di gestione.
Dal punto di vista contabile, infatti, il Consiglio Regionale è dotato di un bilancio separato, finanziato tramite il programma 0101 “Organi istituzionali” della Missione 1 “Servizi istituzionali e generali, di gestione” del bilancio di previsione regionale. Ciò accade in base ad un duplice ordine di disposizioni normative.
In definitiva, tramite il bilancio consiliare, il Consiglio quantifica ed organizza le risorse finanziarie stanziate nel bilancio generale della Regione per il proprio funzionamento ed in particolare per il personale, con inevitabile reflusso sulla spesa rendicontata dal bilancio “generale”, la quale deve essere conforme a legge e a Costituzione.
Inoltre, eventuali titoli sostanziali generativi di spesa pluriennale, originati dall’attività gestionale del Consiglio in materia di personale, danno luogo ad una spesa pluriennale in grado di condizionare la programmazione della spesa futura.
In definitiva, sebbene, a livello amministrativo, il Consiglio sia dotato di una propria organizzazione del personale, tale gestione separata non determina rottura dell’unità del bilancio regionale, che a livello finanziario continua a costituire un’entità unica.
Il principio di unità del bilancio, insieme a quelli di integrità ed universalità, costituisce infatti «profilo attuativo» dell’art. 81 della Costituzione (Corte cost., sentenze nn. 192 del 2012 e 241 del 2013; cfr. i principi contabili generali n. 2, 4, nell’Allegato 1 del D.lgs. n. 118/2011). Poiché la singola amministrazione pubblica è un’entità giuridica unica e unitaria, unici e unitari devono essere i documenti di bilancio (sia di previsione che consuntivi).
L’esistenza di un bilancio consiliare, infatti, non rompe l’unità giuridica e finanziaria della Regione, il cui bilancio regionale unitariamente finanzia, in forma decentrata, il funzionamento di un proprio organo dotato, in questo caso, di autonomia contabile ed organizzativa. Ne consegue che, poiché tutte le entrate correnti regionali, a prescindere dalla loro origine, concorrono alla copertura di tutte le spese correnti e di funzionamento della Regione, sussistono l’implicito divieto di sottrarre le stesse al sistema di regole a presidio del coordinamento della finanza pubblica, nonché l’obbligo di procedere alla verifica del rispetto di tali vincoli attraverso il consolidamento delle voci del bilancio regionale con il bilancio “derivato” del Consiglio, tanto in materia di personale quanto con riferimento agli altri aggregati di spesa corrente presi in considerazione dal Legislatore statale, nell’esercizio del suo potere normativo (concorrente) di coordinamento della finanza pubblica e per quanto concerne il trattamento economico, in base alla sua competenza esclusiva in materia ordinamento civile.
Ciò ha determinato la rilevanza – nell’odierno giudizio di parifica – delle leggi sostanziali e di previsione che istituiscono e legittimano tale spesa. in quanto hanno effetti “permanenti” e obbligatori sulle programmazioni successive e sui rendiconti nella continuità di bilancio
Tanto premesso, si deve rammentare che le amministrazioni, anche per legge, non possono determinare unilateralmente la concessione di trattamenti economici: si ricorda infatti che la fonte legislativa legittimante l’erogazione non può essere regionale. Come ha evidenziato più volte il Giudice delle Leggi, sono costituzionalmente illegittime norme regionali che disciplinano la formazione e la costituzione dei fondi per la contrattazione decentrata, a copertura del trattamento accessorio, mediante l’individuazione di risorse aggiuntive rispetto alla disciplina nazionale (cfr. Corte cost. sentenza n. 26 maggio 2017, n. 121 e sentenza n. 339/2011). Norme siffatte, invero, disciplinano un aspetto del trattamento economico dei dipendenti delle regioni (il cui rapporto di impiego è privatizzato); di conseguenza esse non solo rischiano di porre in crisi il coordinamento della finanza pubblica (materia di competenza concorrente, art. 117, comma 3, Cost.), ma tracimano dall’area della competenza normativa regionale per invadere un aspetto della competenza esclusiva statale, trattandosi di materia afferente l’ambito dell’“ordinamento civile” (art. 117, comma 2, lett. l, Cost. e art. 45, comma 1, D.lgs. 165/2001; cfr. in tale senso anche SRC Lombardia n. 137/2013/PAR).
Le disposizioni istitutive di tali trattamenti economici costituiscono di disposizioni contabili regionali che violano la riserva esclusiva di legge dello Stato in materia di ordinamento civile, ma che hanno con un effetto immediato sul bilancio nei termini seguenti: esse, infatti, violano una disciplina (la disciplina nazionale sul trattamento economico dei dipendenti pubblici) che mira altresì a realizzare un coordinamento della finanza pubblica, con riguardo a macro-aggregati rilevanti (la spesa per il trattamento accessorio del personale); conseguentemente tale usurpazione di competenze ha un impatto sull’equilibrio del bilancio dell’ente pubblico interessato (il Consiglio regionale e quindi la Regione nel suo insieme), che registra una spesa superiore a quella virtualmente consentita, sulla base di criteri uniformi su tutto il territorio nazionale.
La violazione della distribuzione delle competenze normative della Costituzione, prevista per i rapporti tra Stato e regioni (comma 2, art. 117, nello specifico lett. l) ridonda, quindi, in una violazione della competenza concorrente di coordinamento della finanza pubblica (comma 3), rimbalzando sulla corretta costruzione del bilancio e dei suoi equilibri, ai sensi dell’art. 97, comma1, e 81 Cost.. Infatti, in tal modo, viene disposta una spesa regionale che la disciplina statale intende contenere ed evitare, in modo uniforme, su tutto il territorio nazionale (art.3 Cost.), per il raggiungimento di comuni obiettivi di finanza pubblica.
Per tale ragione, nel prendere atto della conformità di tale spesa di secondo livello, alla vigente legge regionale, la Sezione poiché ha constatato la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale delle leggi regionali che tale spesa legittima (per potenziale contrasto con il combinato disposto degli artt. 81, 97 e 117, comma 2 lett.l), Cost., per mezzo della violazione di norme competenziali) e si riserva di parificare le interessate poste di “primo livello” (dell’ultimo rendiconto generale disponibile), in cui le stesse spese sono confluite, all’esito della risoluzione della questione di costituzionalità (sulle “legge 20” e sulla “legge 25”), che sulla menzionata legge regionale solleva d’ufficio.
Con successiva decisione n. 172/2019 PARI la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Campania, sentite la Regione e le richieste del Pubblico Ministero, ha riassunto il giudizio a valle della sentenza n. 146/2019 che ha accolto la questione di costituzionalità sollevata dalla Sezione sull’erogazione illegittima di emolumenti accessori ad alcune categorie di personale del Consiglio regionale, non parifica le poste di trasferimento fondi al Consiglio, nella misura della spesa di secondo livello effettuata verso tale personale. La decisione in estrema sintesi: ribadisce la sindacabilità della spesa degli enti strumentali in sede di parifica; 2) afferma che una volta emessa la sentenza della corte, col risultato di amministrazione già parificato, la decisione è comunque rilevante perché la parifica ha effetti conformativi, in quanto l’oggetto del giudizio è il bilancio inteso come “ciclo/processo”; 3) evidenzia che l’effetto sul giudizio a quo è un “disavanzo di solidarietà” per violazione di oneri della finanza pubblica allargata, sul modello dell’art. 9 comma 2 della L. n. 243/2012.