Commento ad una prima lettura della Delibera Sezione Autonomie n. 8/2019
Nell’attuale sistema ordinamentale italiano – ma il tema riveste carattere anche più generale – vi è un’innegabile crisi del principio della certezza del diritto. Certamente, in buona parte, ciò è dovuto ad un profluvio di atti normativi (e di soft law), di varia rilevanza in termini di gerarchia delle fonti, che rendono complessa l’attività dell’interprete e perciò sembrano far vacillare la sacralità della certezza.
Come è ovvio, è proprio la sede giurisdizionale quella che deve rispondere all’esigenza di presidio di certezza del diritto, quando essa è messa in crisi dalla sua applicazione multiforme se non dalla contraddittorietà intrinseca delle norme.
Poiché, infatti, ogni giudice è sottoposto solo alla legge (art. 101 costituzione) e la interpreta applicandola al caso concreto (ius dicere “in causa”) può accadere, ed accade continuamente, che sia proprio la sede del contenzioso quella dove emergono i maggiori conflitti interpretativi. E, tuttavia, non si può né si deve esaltare l’uniformità delle decisioni, in quanto è proprio la pluralità delle interpretazioni ad arricchire il diritto vivente e a rendere la legge adeguata alla realtà che regola e a rendere il giudice il “custode” della legge e del suo spirito. Piuttosto, occorre intervenire con un sistema di correttivi.
Il tema è noto e tradizionale; in tutti gli ordinamenti ispirati alla civil law – ossia quelli in cui il precedente giudiziario non diventa necessariamente principio di diritto – nei quali viene individuato un potere di carattere uniformatore nell’interesse della certezza dell’ordinamento: la nomofilachia. Questa nomofilachia si basa su due principi organizzativi: la centralizzazione verticistica verso un “unico custode” (garanzia dell’uniformità); l’incidentalità (presidio della funzione giurisdizionale che la distingue da quella legislativa).
Titolare di tale potere è, nell’ordinamento giudiziario italiano, la Corte di Cassazione (art. 65 RD n. 12/1941). La decisione nomofilattica integra un nuovo elemento di diritto (SSUU penali n. 18288/2010) di fatto, arricchendo l’ordinamento. Le Sezioni semplici della Cassazione sono tenute a rispettare il principio definito, salvo rinviare la questione alle Sezioni Unite per un nuovo esame. I magistrati dell’intero ordinamento, invece, rispettano quanto sancito dalla Sezioni Unite nei limiti della ragionevolezza ed applicabilità dello stesso al caso concreto. In ogni caso, la decisione della Cassazione, per quanto integrante l’ordinamento, non è in nessun modo assimilabile ad un potere legislativo: essa infatti incontra numerose e necessarie limitazioni. La funzione nomofilattica non può essere generale, né tantomeno riferita a questioni astratte, ma deve comunque vertere “su ricorsi” cioè su controversie esistenti nel concreto e concretamente produttive di una difformità di interpretazione (art. 374 cpc, comma 2). Per essere ammissibile la decisione di massima deve quindi riguardare una fattispecie reale, un aspetto controverso di una specifica norma, rispetto alla quale le sezioni semplici della Cassazione abbiano mostrato difformità di interpretazione.
Nel caso di giudizi innanzi alla Corte dei Conti la Suprema Corte può esprimersi solo per motivi riguardanti la giurisdizione (art.111, ultimo comma Costituzione). Ne consegue che il potere di nomofilachia nella materia della contabilità pubblica non è attribuito alla Cassazione, bensì, almeno per i profili strettamente giurisdizionali, alle Sezioni riunite della Corte dei Conti che rappresentano il massimo organo di vertice del potere giuriziario contabile (Corte Costituzionale 204/2004).
Attualmente, il potere di nomofilachia per le materie di responsabilità giudizio pensionistico e giudizio di conto è disciplinato dall’art. 114 c.g.c. che prevede il deferimento ad iniziativa delle Sezioni di appello, ma anche del PG o il Presidente della Corte dei Conti in caso di “indirizzi interpretativi” difformi in sede regionale. La normativa in questo caso è piuttosto chiara e stabile nel tempo, anche se codificata di recente[1].
Anche in questo caso, però, successivamente alla pronuncia di nomofilachia, è possibile rimettere la questione alle SSRR per la decisione del ricorso: ciò avviene attraverso il motivato dissenso (117 c.g.c.) esercitato dalla Sezioni di appello (si tenga conto che l’organizzazione delle SSRR della Corte dei Conti non prevede le Sezioni semplici come per la Corte di Cassazione). In pratica il giudice del “caso” non può essere costretto a decidere in base a norma diversa da quella che egli riconosce nella legge, rimettendo la questione e la “decisione” al giudice della nomofilachia. Perciò, per quanto attiene alle pronunce su questioni di massima disciplinate dal codice di giustizia contabile, la situazione è sostanzialmente sovrapponibile a quelle adottate dalla Cassazione, stante le differenze organizzative.
Anche in questo caso, comunque, si pone un problema di stretta ammissibilità della questione il cui vaglio preliminare riguarda, comunque, l’esistenza di un contrasto interpretativo su una specifica norma, contrasto che si deve essere manifestato in decisioni discordanti in sede regionale. Il punto non è irrilevante: per garantire l’indipendenza dei magistrati l’intervento chiarificatore non può avere i caratteri della generalità ed astrattezza, non può essere quindi l’esercizio di un potere normativo, ma deve impingere su una questione delimitata e concreta sollevata nel corso di un giudizio presso sezioni regionali.
L’analogo potere in sede di controllo sugli enti locali è di più recente introduzione e risale alla normativa successiva la legge La Loggia (l. 131/2003). Come è noto tale norma introduce un potere consultivo della Corte dei Conti, nelle sue articolazioni regionali, riferito alle materie della contabilità pubblica ad azione dei soggetti controllati, in genere i comuni. La prima normativa che attribuiva alle SSRR la funzione di nomofilachia anche per il controllo è l’art. 17, comma 31 del d.l. 78/2008 (convertito in legge 102/2009). Tuttavia, e la dottrina non ha esitato a notarlo, la norma prevedeva un “obbligo di conformazione” di tutte le sezioni regionali che esula, come ricordato, dalla funzione più tradizionale di nomofilachia e che ha carattere della generalità riguardando tutte le Sezioni territoriali.
Tuttavia, vi sarebbe spazio per una diversa interpretazione dell’obbligo conformativo con riferimento alle questioni di massima anche nella normativa del controllo. Il dettato della legge, infatti, è il seguente: le Sezioni riunite adottino pronunce di orientamento generale sulle questioni risolte in maniera difforme dalle sezioni regionali di controllo nonché sui casi che presentano una questione di massima di particolare rilevanza. Tutte le sezioni regionali di controllo si conformano alle pronunce di orientamento generale adottate dalle sezioni riunite. Letteralmente l’obbligo di conformazione potrebbe ritenersi sussistente solo nel caso di questioni “risolte in maniera difforme dalle Sezioni regionali” e non per le “questioni di massima di particolare rilevanza”. Si noti, inoltre, che il potere di decisione uniformatrice e del tutto sprovvisto di un rimedio per il caso del dissenso che, come accennato, costituisce un elemento di chiusura del sistema nell’ordinamento giudiziario e nel caso di giudizi delle SSRR della Corte dei Conti.
Non vi è modo, quindi, per le Sezioni regionali di decidere in senso difforme né di rimettere nuovamente la questione alle SSRR per un eventuale ripensamento.
Ovviamente, il tema dell’ammissibilità resta centrale, anche se non sufficientemente esplorato da un punto di vista di ricostruzione dottrinale. Affinché le SSRR possano pronunciarsi è necessario che la questione sia “di particolare rilevanza”. L’ammissibilità deve perciò essere preliminarmente vagliata dalle SSRR che debbono considerare anche i diversi parametri della concretezza e limitazione della questione stessa. Ciò è tanto più necessario se si ritiene, erroneamente per quanto sopra esposto, che a tale decisione debbano conformarsi tutte le Sezioni regionali. Le questioni di “particolare rilevanza” dovranno essere quindi ancorate a norme specifiche e che generano concreti conflitti interpretativi concreti. Non si può immaginare, infatti, che la funzione uniformatrice si svolga su questioni astratte o che, ancora, non hanno dato luogo ad interpretazioni discordanti. Se anche il punto non risulta esplicitato nella norma che attiene alla nomofilachia in sede di controllo, vale comunque il principio generale in quanto il giudice deve essere sottoposto soltanto alla legge.
A valle del decreto legge 174/2012 (conv. l. n. 213/2012) si è posto un ulteriore problema, poiché il legislatore ha stabilito che in caso di interpretazioni discordanti delle sezioni regionali la Sezione delle Autonomie può adottare “delibere di orientamento” alle quali le sezioni regionali si conformano. Nel caso di “eccezionale rilevanza ai fini del coordinamento della finanza pubblica” resta il precedente potere di nomofilachia delle Sezioni riunite.
Questo intervento legislativo ha posto diverse questioni.
In primo luogo, appare piuttosto singolare che in un contesto tutto sommato non molto esteso come quello della Corte dei Conti possano esistere ben due organi dotati di funzioni di nomofilachia (le SSRR e la Sezione Autonomie). Tra l’altro, da un punto di vista procedimentale, il presidente della Corte è il Presidente di entrambe le Sezioni e, perciò, di fatto, la remissione all’una o all’altra Sezione viene esercitata dal Presidente senza che vi sia una norma di presidio della competenza. In teoria, infatti, una Sezione investita della questione potrebbe ritenerla non sufficientemente rilevante o troppo rilevante e volerla quindi rimettere all’altra sezione, ma per far questo uno strumento tecnico non c’è, se non in termini di valutazione dell’ammissibilità della questione. Il problema di fondo è, come anticipato, la duplicità degli organi competenti che appare del tutto irragionevole rispetto all’obiettivo perseguito e foriera di maggiori incertezze, in ragione di possibili contrasti tra organi nomofilattici nel tempo, anziché della auspicata uniformità.
Si pone poi, nuovamente, il problema dell’obbligo di conformazione, problema che è stato anche sollevato in termini di costituzionalità dalla regione Sardegna (per la parte che qui interessa, art. 6, comma 4 del d.lgs 174/2012) che vedeva nei poteri così incisivi della nomofilachia contabile un vulnus alla propria autonomia. Con la Sentenza 39/2014 (relatore Mattarella) la Corte Costituzionale è stata investita in modo ampio della questione del riparto di competenze tra Stato e Regioni. La sentenza è molto più articolata e riguarda soprattutto l’art. 1 del decreto 174; sul punto specifico comunque la regione lamentava che le “delibere di orientamento” affiderebbero la disciplina del controllo alla sezione centrale della Corte dei Conti e non ad un organo della stessa regione, così generando un ipotesi di “normazione” generale affidata ad un organo statale, in violazione dell’autonomia riconosciuta dalla Costituzione alle Regioni a statuto speciale (cfr. punto 8.10 e non solo il punto 8.5, citato dalla Sezione Autonomie). La Corte Costituzionale ha dichiarato la norma legittima indicando che la stessa si applica solo in presenza di interpretazioni discordanti delle norme da parte delle Sezioni regionali della Corte dei Conti, e quindi la legge non attribuisce un generale potere “normativo” alla Sezione delle Autonomie, ma il solo potere di dirimere i conflitti interpretativi concreti. Non si può che leggere in questa affermazione un richiamo alla concretezza della questione, all’esistenza di una controversia interpretativa attuale e puntuale, che, del resto, costituisce un elemento imprescindibile dell’esercizio del potere di nomofilachia.
Sembrerebbe doversi ricavare che questa funzione nomofilattica attribuita alla Sezione delle Autonomie ha caratteristiche stringenti, in quanto deve centrarsi su un conflitto interpretativo e non su una generale questione interpretativa (probabilmente rimessa, sempre con limitazioni, alle SSRR). Una vera e propria delibera di orientamento quindi non è adottabile se non in presenza di un conflitto di interpretazioni delle Sezioni, e, probabilmente anche dalla remissione da parte di una sezione regionale.
Ne deriverebbe che il potere di incidere con questioni di massima sia riservato alle sole SSRR giurisdizionali, le quali sono comunque legate alla valutazione dell’eccezionale rilevanza ai fini del coordinamento della finanza pubblica e al meccanismo dell’incidentalità che sorge dal processo. D’altra parte, ciò sarebbe coerente con un ordinamento, quale sembra emergere dalle recenti pronunce della Corte Costituzionale, in cui viene sempre più sfumata la dicotomia controllo-giurisdizione e che, invece, riconosce una sostanziale compenetrazione delle due anime tradizionali della Corte dei Conti. Sembrerebbe, quindi, coerente con questo quadro attribuire ad un unico organo di vertice, le Sezioni Riunite, appunto, il potere di uniformare la giurisprudenza (sia che provenga da giudizi di responsabilità sia che, invece, sia emanazione delle sezioni del controllo) della Corte dei Conti.
Occorre anche notare che sul punto riguardante il potere attribuito alla sezione delle Autonomie la sentenza Mattarella è molto sintetica e non potrebbe essere, allo stesso tempo, più chiara. Non si vede come possa essere definita un obiter dictum (come fa la delibera in commento) solo perché il ricorso non si riferiva ai presupposti per l’esercizio della funzione; presupposti che vanno individuati, con ogni probabilità, nella remissione della questione da parte di una Sezione regionale. Per consentire alla norma di conservare il posto nell’ordinamento, la Corte Costituzionale l’ha limitata al solo caso del conflitto interpretativo tra Sezioni di controllo. Non si può escludere, inoltre, che – in coerenza con l’evoluzione più recente proposta dalla Corte Costituzionale con la sentenza 6/2019 – anche nel caso di contrasto tra Sezioni regionali si debba distinguere rispetto al tipo di controllo esercitato. Non c’è dubbio, infatti che un conto sia il parere rilasciato su richiesta degli enti territoriali, un conto sia la delibera che si pronuncia su un piano di riequilibrio.
Il punto, ad avviso della sez. Autonomie nella delibera che si commenta sarebbe stato risolto dal d.l. 91/2014, art. 33 che modifica la dicitura “In presenza di interpretazioni discordanti delle norme” con la frase “Al fine di prevenire o risolvere contrasti interpretativi” da cui discenderebbe un potere di risolvere i contrasti ma anche una funzione di “prevenzione” degli stessi. La prevenzione dei contrasti interpretativi amplierebbe dunque il potere di intervento, si ricorda con obbligo di conformazione, della Sezione Autonomie.
La pretesa è, invero, piuttosto debole. La questione di massima è comunque limitata dal codice di procedura civile dalle parole “di particolare importanza” ed alla presenza di un “ricorso”, così come nel d.l. n. 78/2009 si indica quale necessaria qualificazione l’“eccezionale rilevanza” ai fini del coordinamento della finanza pubblica. Questo perché, come già più volte ricordato, l’introduzione di un principio di diritto nell’ordinamento è possibile, ma deve essere limitato, affinché il giudice non si sostituisca al legislatore e perché sia salvaguardata l’indipendenza del magistrato che deve rispondere solo alla legge e non ad un superiore gerarchico. Far derivare tale potere “di indirizzo” dal solo termine “prevenire” conflitti appare del tutto ultroneo.
Così ragionando, infatti, non si potrebbe che concludere che alla Sezione delle Autonomie non sarebbe assegnata una funzione “uniformatrice”, ma piuttosto una funzione gerarchica di indirizzo delle Sezioni regionali, del tutto incompatibile con l’ontologica qualifica dei magistrati delle Sezioni regionali.
Infatti, la Sezione delle Autonomie potrebbe, con l’intento di “prevenire i conflitti”, imporre una certa interpretazione normativa, in teoria anche prima che un conflitto si manifesti, ed obbligando a conformarsi all’interpretazione data. In pratica si delinea un potere gerarchico simile a quello esercitato con la circolare tipica dell’amministrazione, che ben poco ha a che vedere con l’ordinamento giudiziario. Il magistrato si troverebbe, in ragione di una sola parola nella norma citata, a dover decidere non più in base alla legge ma in base al parere che sulla legge stessa esprime la Sezione delle Autonomie.
Questo tipo di potere non ha spazio negli altri ordini giudiziari, dove al massimo si può rinvenire una funzione uniformatrice in presenza di un contrasto interpretativo concreto. Al di là del fatto che ciò non appare convincente anche se ribadito in altra delibera della Sezione Autonomie (la n. 3 del 2019), resta comunque insormontabile il problema dell’ammissibilità.
La “prevenzione” dei conflitti non può riguardare certamente qualunque norma o persino un’intera legislazione, ma deve trovare un limite nella concretezza di una fattispecie singola. Se si ritiene che non debba essere legata ad un conflitto concreto tra Sezione (che dovrebbe anzi prevenire nell’interpretazione qui criticata) la stessa potrebbe in questo modo incidere, per il tramite delle Sezioni regionali, sugli ordinamenti locali e regionali e, dunque, sulla loro autonomia, violando la Costituzione. Probabilmente, sarebbe necessaria un’interpretazione costituzionalmente orientata, anche in base alla citata sentenza n. 39/2014, per addivenire, almeno sul fronte dell’ammissibilità della questione, ad una sensibile limitazione dei casi in cui applicare tale peculiare disposizione legislativa.
Ulteriore elemento che dovrebbe indurre ad adottare con prudenza delibere interpretative generali è la presenta dell’art.11, comma 6, lett.e) del codice di giustizia contabile, già evocato. Tale norma rende impugnabili tutte le pronunce delle Sezioni regionali di controllo e il giudizio è rimesso alle SSRR in speciale composizione. L’organo giudicante, benché in una speciale composizione, è emanazione del medesimo organo che potrebbe intervenire in sede di nomofilachia.
Nel caso però in cui sia intervenuta la Sezione delle Autonomie, e la Sezione regionale si sia necessariamente conformata al principio dettato, di fatto l’impugnazione della pronuncia non può che rimettere in discussione anche il principio stesso pronunciato in uno dei due organi nomofilattici. In questo caso il cortocircuito istituzionale è ancora più evidente perché tutte le Sezioni di controllo si troverebbero obbligate a procedere in conformità con un orientamento che potrebbe essere sistematicamente smentito dal ricorso per impugnazione della pronuncia e quindi dalla decisione delle Sezioni riunite.
Non sembra che questa proposta interpretazione sia coerente con il principio della certezza del diritto, anzi rischia di aggravare l’incertezza.
Perciò sarebbe preferibile un ripensamento complessivo che riconduca la funzione di nomofilachia ad un solo organo della Corte, le Sezioni Riunite, e sembrerebbe anche opportuno un ripensamento, legislativo, circa l’obbligo conformativo, anzi prevedendo pronunce di dissenso e di conseguente remissione. Non è escluso che sia ancora individuabile un potere di carattere uniformatore esercitabile dalla Sezione delle Autonomie, ma lo stesso probabilmente deve essere ricondotto alle forme del controllo di carattere ausiliario, come sono appunto i pareri resi dalle Sezioni regionali, mentre nel caso delle pronunce del controllo con carattere che possiamo definire, per brevità, “paragiurisdizionale”, è necessario che il potere uniformatore venga esercitato dalla Sezioni Riunite con i canoni e i limiti previsti per l’analogo potere in sede propriamente giurisdizionale.
Infine, una notazione occorre anche sul contesto in cui la delibera è stata adottata.
Nel caso in esame, non si era in presenza di un contrasto interpretativo di norme, ma di un possibile contrasto dovuto alla caducazione di una norma da parte della Corte Costituzionale. Nonostante l’affermazione che per la Sezione Autonomie un contrasto non sia necessario (poiché vi è il citato potere di “prevenzione”) la delibera indica comunque l’esistenza di pronunce sulla stessa materia da parte di Sezioni diverse.
Come è noto, la sentenza 18/2019 della Corte Costituzionale è stato il primo caso in cui si è ammessa la legittimazione a sollevare questione di costituzionalità in sede di controllo sui rendiconti degli enti locali (specificamente in sede di verifica dei piani di riequilibrio). L’assoluta novità della questione ha, ovviamente, condotto le due Sezioni interessate dalla vicenda (Campania e Calabria) a muoversi sul piano interpretativo alla ricerca delle norme applicabili a seguito di dichiarazione di incostituzionalità.
Non solo un conflitto, pur adombrato dalla stessa Sezione Autonomie, non era così evidente, ma l’assoluta novità della materia avrebbe probabilmente dovuto far propendere per una maggiore tutela della libertà dei magistrati a interpretare il vuoto legislativo stesso. Inoltre, delle due Sezioni una era quella che aveva rimesso la questione di costituzionalità e, dunque, in una posizione del tutto diversa dalle ipotetiche altre Sezioni che si sarebbero potute esprimere sul punto.
Ovviamente, occorre considerare il fatto che, dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale, la norma indicata deve essere disapplicata da tutti i magistrati, in applicazione dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 della l. n. 87/1953 (in combinato disposto con quanto previsto dal meccanismo del’incidentalità diusciplinato dalla l. cost. n. 1/1948). Questo è il principale effetto di una pronuncia della Corte Costituzionale al quale si devono attenere anche i magistrati. Per altro verso, in ragione dell’ampio oggetto della delibera di orientamento in commento, si osserva altresì che è indubbio che competenza a giudicare ed eventualmente modulare effetti della dichiarazione di incostituzionalità di una legge, soprattutto in relazione all’art. 81 Cost., è la Corte costituzionale medesima (cfr. il caso della c.d. Robin Tax, sent. n. 10/2015, punto 8 in diritto, ma cfr. altresì le sentenze nn. 266/1988 e n. 50/1989).
L’urgenza con cui la Sezione Autonomie ha deciso di prendere posizione su una questione in via di interpretazione preventiva e con obbligo di conformazione (obbligo che è applicabile, in teoria, anche alla Sezione remittente) appare perciò quantomeno inopportuna, non solo per la debolezza dei riferimenti normativi già descritti, ma anche per il contesto nel quale è stata esercitata e che costringe ad attenersi ad una specifica interpretazione della sentenza della Corte Costituzionale (sul merito della soluzione individuata si rinvia ad altri commenti).
La questione avrebbe forse dovuto essere giudicata inammissibile proprio perché non verteva su un contrasto interpretativo concreto né su una specifica norma, ma anzi, come del resto dichiarato in modo esplicito dalla delibera stessa, sulla difficoltà nell’individuare una norma applicabile.
In base ai generali principi anche costituzionali che si è certato di riassumere, una questione di massima, nel senso proprio della nomofilachia, non può vertere su quale sia la disciplina applicabile in senso generale ed astratto, perché, in questo caso, finirebbe per sostituirsi al legislatore, unico organo deputato a riempire i vuoti eventualmente lasciati da una pronuncia di incostituzionalità.
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Il codice riprende comunque quanto già indicato dall’art. 4 della legge 161/1953, arricchito dal rinvio che era previsto al codice di procedura civile e dalla copiosa giurisprudenza derivante dai decenni di attività della Corte dei Conti. ↑