La Corte Costituzionale interviene sull’abuso d’ufficio

La sinergia delle responsabilità dei pubblici dipendenti tra semplificazione, sanzioni penali e risarcimento del danno erariale

Commento a sentenza Corte Costituzionale 8/2022

di Andrea Luberti

Con la sentenza 18 gennaio 2022, n. 8, la Corte costituzionale ha giudicato sulla legittimità costituzionale di una delle novità introdotte dal decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, segnatamente della nuova formulazione del reato di cui all’articolo 323 del codice penale (abuso d’ufficio), con una serie di considerazioni di indubbio interesse.

Al riguardo, occorre ricordare che la fattispecie incriminatrice previgente riguardava “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto (…)”.

L’incriminazione, all’esito del decreto-legge n. 76 del 2020, riguarda invece, sempre salvo che il fatto non costituisca un più grave reato “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto (…)”[grassetti dell’autore].

Il reato di abuso di ufficio è stato complessivamente oggetto, nell’ultimo trentennio, di ben tre riformulazioni (oltre a quella commentata, hanno provveduto in tal senso l’articolo 13 della legge 26 aprile 1990, n. 86 e l’articolo 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234). Per la verità, nel tessuto codicistico originario, connotato (data anche l’epoca di emanazione) dalla concezione etica del pubblico funzionario, la tutela del bene protetto, individuabile nell’assoluta laicità della funzione autoritativa agli interessi personali, era affidata a ben due disposizioni incriminatrici. Infatti, l’articolo 323 del codice penale sanzionava appunto il vero e proprio abuso d’ufficio, rappresentato dal comportamento del “pubblico ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge (…)”. Invece, il successivo articolo 324 sanzionava persino il mero interesse privato in atti di ufficio, individuato nel semplice “prende[re] (…) un interesse privato in qualsiasi atto della pubblica amministrazione presso la quale esercita il proprio ufficio” da parte del pubblico funzionario. La legge n. 86 del 1990 (oltre, all’articolo 20, abrogare l’articolo 324 del codice penale) aveva, medio tempore, riformulato proprio la fattispecie dell’articolo 323, che in tale ristretto arco temporale sanzionava “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa[va] del suo ufficio”.

Le motivazioni di questa singolare alternanza normativa devono essere individuate nel netto disfavore incontrato, presso il ceto degli amministratori pubblici, ma anche di gran parte della dottrina penalistica, per tale fattispecie criminosa. Le relative motivazioni sono esposte nella sentenza in commento e il relativo iter logico sarà, pertanto, a breve sviscerato.

Accennato al contesto normativo, va precisato che la questione di legittimità costituzionale era stata proposta dal giudice penale (investito della cognizione, in sede di udienza preliminare, di condotte tenute prima dell’entrata in vigore del decreto-legge, ma giudicate successivamente), per motivi procedurali ma anche sostanziali: le prime sono state dichiarate infondate, mentre le seconde inammissibili.

La seconda, ma più importante, problematica presenta risvolti eminentemente giuspenalistici e si inquadra nel dibattito sull’ammissibilità di una successione di leggi nel tempo laddove la disposizione incriminatrice più favorevole sia costituzionalmente illegittima (ipotesi, in teoria, secondo quanto tratteggiato nella sentenza, diversa dalle norme penali di favore, che restringono e non abrogano la fattispecie incriminatrice).

In realtà, per quanto nella pronuncia la questione sia stata rigettata addirittura sotto il versante dell’inammissibilità, richiamando alcuni precedenti, la giurisprudenza della Corte sul possibile effetto in malam partem delle proprie pronunce pare lontana dall’aver raggiunto conclusioni univoche (si vedano, per la soluzione favorevole, le pronunce 3 giugno 1983, n. 58, e, per il caso specifico della contrarietà della disposizione introdotta a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’articolo 11 o dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, le sentenze 23 novembre 2006, n. 394 e 25 gennaio 2010, n. 28; in tema di decreto-legge, la sentenza 19 febbraio 1985, n. 51).

Mentre per i comportamenti coevi al periodo di abolitio criminis la questione merita di essere risolta sotto il versante dell’infondatezza, derivante dal principio di sussidiarietà dell’incriminazione penale quale extrema ratio, per quelli assoggettabili a sanzione prima dell’intervento abrogativo ritenuto costituzionalmente illegittimo un problema indubbiamente si pone, soprattutto per l’ipotesi (come in questo caso) in cui l’abrogazione sia realizzata tramite il ricorso alla decretazione di urgenza.

Nel caso di specie, ad esempio, la contestazione, senza dubbio grave, nei confronti degli imputati riguardava la violazione di norme sui concorsi pubblici, contenuti in norme di valore regolamentare (i decreti del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, e 10 dicembre 1997, n. 483).

Tale considerazione consente di introdurre il secondo ordine di motivi di illegittimità scrutinati dalla Corte, quelli relativi alla correttezza del ricorso allo strumento della decretazione d’urgenza, sia per assenza dei relativi presupposti che per eterogeneità della disposizione abrogatrice rispetto alle finalità del decreto-legge n. 76 del 2020, recante misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale. Secondo la Corte costituzionale, le censure procedimentali promananti dal giudice a quo sarebbero del pari infondate, per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, il decreto-legge n. 76 del 2020 sarebbe, di per sé, “un complesso di norme eterogenee accomunate dall’obiettivo di promuovere la ripresa economica del Paese dopo il blocco delle attività produttive che ha caratterizzato la prima fase dell’emergenza pandemica”, finalità rispetto a cui la decretazione non potrebbe che intervenire, in considerazione della latitudine degli obiettivi, con interventi oggettivamente eterogenei. L’argomento pare tuttavia perfettibile, perché la corte pare, nel negare il vizio lamentato dal giudice a quo, al contrario implicitamente ammetterlo.

Sotto il versante dei presupposti sostanziali della decretazione, la Consulta ha inoltre evidenziato che “l’esigenza di far “ripartire” celermente il Paese dopo il prolungato blocco imposto per fronteggiare la pandemia che – nella valutazione del Governo (e del Parlamento, in sede di conversione) – ha impresso ad essa i connotati della straordinarietà e dell’urgenza”.

In quest’ottica, con una pregevole ricostruzione storica che ripercorre le vicende già descritte nell’incipit dell’articolo, sono evidenziate le numerose problematiche applicative delle diverse fattispecie nel corso degli anni introdotte dal legislatore, soprattutto a partire dalla riforma del 1990.

La Corte costituzionale ha sottolineato che la sostanziale indeterminatezza della condotta incriminata ha determinato un forte intervento della magistratura inquirente nell’azione amministrative, con effetto deterrente sull’assunzione di decisioni impegnative e sulla celerità della pubblica amministrazione. In effetti, è nella prassi applicativa riscontrabile, come evidenziato dalla corte, che la formulazione del reato (basata sulla difficilmente riscontrabile intenzionalità dell’elemento psicologico) un “enorme divario, che pure si è registrato sul piano statistico, tra la mole dei procedimenti per abuso d’ufficio promossi e l’esiguo numero delle condanne definitive pronunciate in esito ad essi”, con sproporzione quindi tra i costi e i benefici dell’incriminazione penale.

Le valutazioni sostanziali della Consulta parrebbero, quindi, in astratto condivisibili. Sennonché, nel valutare l’eterogeneità del provvedimento la Corte costituzionale ha rilevato come il decreto in commento sia intervenuto, oltre che sotto il versante della responsabilità penale, anche su quello della responsabilità per danno erariale (articolo 21, comma 1, del decreto-legge n. 76 del 2020 che, come noto, limita sino al 30 giugno 2023 la responsabilità amministrativa per colpa grave nel caso di attività commissiva). In un’ottica di sussidiarietà dell’intervento penale, la considerazione della Corte appare peccare di ottimismo. Infatti, proprio al fine di delimitare rigorosamente l’intervento del giudice penale nell’apparato amministrativo, parrebbe per contro opportuna un’espansione delle tutele risarcitorie, quale utile “valvola di sfogo” per le fattispecie illegittime, nonché produttive di danno.

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