Nota a Corte di Cassazione, Sezioni unite civili, sentenza 17 dicembre 2020, n. 28975
La sentenza in commento ha escluso la sussistenza del vizio di eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nell’area riservata alla pubblica amministrazione, fondato sulla prospettazione di una diversa interpretazione degli istituti giuridici venuti in rilievo nel giudizio contabile; l’error in iudicando, non attiene all’invasione della sfera di attribuzioni riservate ovvero all’essenza della giurisdizione, bensì al modo in cui quest’ultima è stata esercitata, nell’ambito di una valutazione in iure pienamente spettante al Giudice contabile. Restano confermati i limiti al principio dell’insindacabilità “nel merito” delle scelte discrezionali compiute da soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti, in relazione alla verifica di conformità alla legge che regola l’attività amministrativa e di compatibilità delle soluzioni gestorie adottate con i fini pubblici dell’ente, che devono essere ispirati ai criteri di economicità ed efficacia, alla stregua dell’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
La pronuncia appare interessante per la disamina di orientamenti ormai consolidati sul tema, offrendo occasione di collegamento con eventuali prospettive evolutive, oltre che di catalogazione delle preclusioni al sindacato del Giudice contabile in relazione alle principali categorie dell’azione amministrativa.
All’esito del dibattito che portò dall’Assemblea Costituente alla Costituzione, come noto, ragioni storiche e di specializzazione tecnica definirono la permanenza delle giurisdizioni speciali accanto alla ordinaria (cfr. artt. 102, 103 e 111 Cost). E’ risultata così affidata alla Corte dei Conti la giurisdizione “nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalle legge”, con espansione tendenzialmente generale “ove sussista identità di materia e di interesse tutelato” e con il “limite funzionale delle attribuzioni giudicanti” nella interpositio del legislatore, secondo le costanti indicazioni fornite in primis dal Giudice delle leggi, indipendentemente dalle contrastanti teorie giurisprudenziali e dottrinali sulla natura della responsabilità amministrativa.
Avverso le decisioni del Giudice speciale contabile (e amministrativo) di ultima istanza, differentemente da quanto avviene per gli altri Giudici, non è previsto il sindacato di legittimità della Suprema Corte per violazione di legge – quindi, ai sensi degli art. 111, comma 7 Cost. e art. 360, comma 4, c.p.c., per tutti i motivi enumerati nel primo comma di tale articolo -, bensì “il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”, ai sensi degli artt. 111 Cost., comma 8, 362 c.p.c. e 207 del Codice di Giustizia Contabile. Non è consentita censura seppure a critica vincolata, pertanto, degli eventuali errori di diritto contenuti nella sentenza che si rilevi “sbagliata” per motivi inerenti all’errata interpretazione o applicazione di norme di legge, sostanziale (errores in iudicando) o processuale (errores in procedendo), quali vizi di giudizio e di attività rientranti nell’alveo dei cd. limiti “interni” della giurisdizione. In realtà, come aveva rilevato già Mario Nigro, “padre” della moderna giustizia amministrativa e della fondamentale legge n. 241/1990, “nessuna di tali disposizioni, come si vede, è idonea a fornire precisazioni circa il detto ambito”, dovendosi l’interprete necessariamente rivolgere all’esame della giurisprudenza formatasi sulle medesime norme.
Risulta altresì noto che, all’esito di un intenso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, segnato da episodi di conflitto tra Corti, con la sentenza del 18.01.2018, n. 6, la Corte Costituzionale ha delimitato la giurisdizione dello stesso Giudice regolatore, sostanzialmente alla materia della ripartizione del potere, dunque alle violazioni dei limiti “esterni” della giurisdizione contabile, al pari di quella amministrativa, circoscrivendone la nozione all’eccesso di potere giurisdizionale ed al difetto assoluto ovvero relativo di giurisdizione, con riferimento alle sole ipotesi in cui “il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici”. E’ risultata, così, ridimensionata la portata degli indirizzi ermeneutici ampliativi dell’estensione del controllo delle Sezioni Unite sulle decisioni dei giudici speciali, con conseguente erosione degli spazi esclusivamente affidati ai rispettivi plessi, basati su un’accezione “dinamica”, “funzionale” ed “evolutiva” di giurisdizione, escludendo che vi potessero rientrare, oltre alle norme regolative dei presupposti per l’attribuzione del potere giurisdizionale quelle relative ai contenuti del suo esercizio attraverso l’estrinsecazione delle tutele, almeno per le questioni afferenti alla primautè del diritto dell’Unione che ridondassero in denegata giustizia, nella violazione del contraddittorio, dei canoni di imparzialità e terzietà del Giudice o del divieto di bis in idem o che potessero sostanziare un radicale stravolgimento delle norme di riferimento, in termini di effettività della tutela e giusto processo. A fronte di tali aperture, considerando le ordinanze gemelle del 2006 e la sentenza del 2008 sulla cd. pregiudiziale amministrativa, le pronunce che hanno affermato l’eccesso ovvero il rifiuto di giurisdizione da parte del Giudice speciale sono state pochissime, seguendo in generale la Corte regolatrice un atteggiamento “prudente” e “riduttivo”, per cui l’invasione nel campo legislativo è stata ridotta a figura di rilevo meramente teorico a fronte del generale potere di interpretazione del Giudicante, il diniego di giustizia ad “abnorme” errore interpretativo, con “radicale stravolgimento delle norme di riferimento, cosi come interpretate dalla corte di Giustizia” e affermato lo sconfinamento per il Giudice amministrativo, ad esempio, rispetto alle delibere del C.S.M. di conferimento di un incarico giudiziario (Sent. n. 19787 del 5.10.2015).
- Il fatto e lo svolgimento del processo
L’annotata sentenza unitamente all’intera vicenda processuale da cui origina, sottende questioni di interesse, anche per la specifica configurazione offerta in sede di merito alle componenti strutturali dell’illecito amministrativo-contabile e per il vaglio della normativa urbanistica applicabile, di fonte statale e regionale, risultando la materia del “governo del territorio” attribuita alla potestà legislativa concorrente delle Regioni a statuto ordinario (art. 117, comma 2 Cost.). Specificamente, la sentenza di primo grado ha riconosciuto la responsabilità gravemente colposa del Responsabile dello Sportello Unico Attività Produttive (SUAP) di un Comune che aveva rilasciato l’”autorizzazione unica” ad una Diocesi (il 22.03.2006) assentendone con “presa d’atto” la voltura ad una società cooperativa sociale (il 20.04.2010), all’esito di una complessa fattispecie negoziale di vendita del terreno ad altra società di costruzione e conseguente locazione tra quest’ultima e la medesima cooperativa, divenuta nelle more socio unico della prima, previa variante al PRG e appalto dei lavori, per la realizzazione di una residenza protetta per anziani e opere di “completamento“, con esonero dal contributo di costruzione.
I referenti normativi del “contributo per il rilascio del permesso di costruire”, che va “commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”, sono stati individuati in generale negli artt. 16-19 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – T.U.E.), oltre che, nella specie, negli artt. 23-28 della L. R. Umbria n. 1 del 18.02.2004 (Norme per l’attività edilizia), con riferimento negli atti considerati all’art. 26, comma 1, lett. c), primo periodo, in ragione del carattere d’“interesse generale” dell’opera realizzata “dagli enti istituzionalmente competenti”, disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 17, comma 3, lett. c), primo periodo, del T.U.E. Inoltre, trascorsi quattro anni, il medesimo Responsabile allegava di aver avviato un procedimento di riesame dei presupposti per l’applicabilità della disciplina degli esoneri, a seguito di segnalazione della Guardia di finanza circa il mancato pagamento degli oneri edilizi, mantenendo il beneficio all’esito dell’istruttoria dal momento che il contributo non sarebbe stato comunque dovuto ricorrendo l’ipotesi di “opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”, di cui all’art. 26, comma 1, lett. c), secondo periodo, della medesima L. R., che reca una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 17, comma 3, lett. c), secondo periodo, del T.U.E., riproponendo in modo testuale la lettera f) dell’art. 9, comma 1, dell’abrogata legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Bucalossi).
Il giudice di primo grado, esclusa la rilevanza del contratto di locazione e della successiva costituzione del diritto di usufrutto a titolo oneroso, a favore della cooperativa, oltre che l’inattualità del danno in ragione della determinazione con cui il convenuto “a scopo meramente cautelativo” aveva ingiunto nel corso del 2016 il pagamento del dovuto a entrambe le società, ormai in liquidazione, aveva ritenuto che il danno da mancata percezione del contributo di costruzione andasse ancorato, nel suo accertamento, al riscontro delle condizioni poste dell’art. 26 cit., comma 1, lett. c), primo periodo che emergevano dalla domanda di volturazione, risultando proprietaria del bene la S.r.l. acquirente e non un ente istituzionalmente competente, nei cui confronti il contributo doveva essere accertato, calcolato e riscosso.
Il giudice di appello, investito del gravame avverso la condanna in prime cure, ha ripercorso la normativa applicabile e vagliato le condotte nella necessaria continuità dell’azione amministrativa, per l’applicazione della sopra richiamata disposizione regionale, rilevando che nella fattispecie non ricorrevano entrambi i concorrenti requisiti enunciati da tale norma, a carattere oggettivo e soggettivo, da ritenersi di stretta interpretazione, per fondare l’applicato regime di gratuità, derogatorio del principio generale di onerosità del contribuito (cfr. artt. 11, comma 2 e 16, comma 1 T.U.E., che rinvia alle tassative ipotesi del successivo art. 17, comma 3). Infatti, seppure rivolta a soddisfare finalità di lato interesse pubblicistico, una residenza protetta non aveva natura di opera pubblica o di interesse generale. Neppure poteva ritenersi sussistente il requisito soggettivo nelle società coinvolte nella vicenda, dato che le opere erano destinate a rimanere senza vincolo temporale nella disponibilità di un privato esecutore e non erano realizzate da un concessionario della P.A.. Alla luce dell’istruttoria, inoltre, non risultava applicabile anche il secondo periodo dell’art. 26, comma 1, lett. c) della L.R., dato che non poteva trattarsi di opere di urbanizzazione anche secondaria, per le quali l’esenzione è prevista anche se realizzate da privati, difettandone la caratteristica di attrezzatura sanitaria in senso proprio o socio-sanitaria (art. 16, comma 8 T.U.E.), per la prevalente destinazione ricettiva rivolta ad una specifica tipologia di utenti e non alla collettività indifferenziata, in assenza di specifici accordi col Comune ex art. 11 della fondamentale L. n. 241/1990. Quanto all’elemento soggettivo, la responsabilità gravemente colposa emergeva dall’assenza di accertamenti in ordine al soggetto realizzatore dell’opera, oltre che della ricorrenza dei requisiti dell’esenzione, essendosi limitato il Responsabile della Struttura preposta ad una non scusabile presa d’atto della voltura, in contrasto con i principi affermati in materia dalla giurisprudenza amministrativa, in assenza di circostanze anomale dell’agire che potessero impedire una completa istruttoria ovvero indurre ad una falsa percezione dell’agente circa il necessario adempimento degli obblighi istruttori. Relativamente alla sussistenza ed attualità del danno erariale, tenuto distinto da quello da mancata entrata, è stato affermato che la determinazione del 2010 aveva rimosso illico et immediate la stessa ragione del credito, con conseguente attuale e concreta conseguenza patrimoniale negativa per l’erario comunale.
Con unico motivo di ricorso alla Suprema Corte è stata dedotta la sussistenza del vizio di eccesso di potere giurisdizionale in ragione del preteso indebito sconfinamento nell’area di merito riservata alla pubblica amministrazione, avendo il Giudice contabile “sostituito” autonome valutazioni in tutto e per tutto confliggenti e opposte a quelle già compiute dalle competenti amministrazioni pubbliche, oggetto di riserva di amministrazione, disconoscendo l’assetto amministrativo di riferimento e non qualificando, come invece avrebbe dovuto, la residenza protetta per anziani come struttura sanitaria e quindi come opera di urbanizzazione secondaria (Regolamento regionale n. 9 del 2008), anche tenuto conto dei vigenti strumenti urbanistici e del fatto che la Onlus realizzatrice risultava inserita nell’elenco delle strutture sanitarie accreditate dalla Regione Umbria. Nel caso di specie, dunque, l’elemento soggettivo della responsabilità andava escluso, secondo un giudizio ex ante, avendo il ricorrente tenuto una condotta scrupolosa ed allineata con i propri doveri funzionali, sia in occasione della voltura del 2010, che della procedura di riesame del 2014.
Preliminarmente all’esame della questione di giurisdizione, è stata vagliata e ritenuta non fondata l’eccezione della Procura contabile sulla formazione del giudicato sul punto della giurisdizione della Corte dei Conti sui fatti di causa, non essendo stata sollevata tale questione in appello, avendo il ricorrente addebitato proprio alla sentenza di appello di non aver tenuto conto della propria qualifica di avvocato e degli altri elementi, già esposti in primo grado e ribaditi in sede di gravame. Infatti, secondo pacifici approdi delle Sezioni Unite, il giudicato interno sulla giurisdizione si forma tutte le volte in cui il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando anche implicitamente la propria giurisdizione, e le parti abbiano prestato acquiescenza a tale statuizione, non impugnando la sentenza sotto questo profilo. Di contro, qualora l’eccesso di potere giurisdizionale sia addebitato alla sentenza di appello assumendosi che vi sia incorso direttamente il giudice d’appello oppure qualora l’eccesso sia stato commesso dal primo giudice, sia stato fatto valere come tale con l’appello ed il giudice di esso abbia disatteso il relativo motivo di impugnazione, così avallando a sua volta l’eccesso, la formazione di un giudicato interno si verifica solo se la sentenza di appello non venga impugnata sul punto in Cassazione (cfr. Cass., sez. un., cit. n. 28503 del 29.11.2017 e n. 9680 del 05.04.2019). La Corte regolatrice, sulla questione, per altro addebito erariale aveva già affermato: “Infatti, al riguardo deve essere richiamato il principio secondo cui, ai fini della formazione del giudicato, anche implicito, sulla giurisdizione, è necessaria l’esistenza, nella sentenza di primo grado, di un capo autonomo su di essa impugnabile, ma non impugnato, in appello. Tale situazione non è configurabile in ordine ad una sentenza di primo grado astrattamente affetta da vizio di eccesso di potere giurisdizionale, poiché, nell’ambito del plesso giurisdizionale della Corte dei conti o del Consiglio di Stato, l’eccesso di potere che si sia determinato, in ipotesi, nel giudizio di primo grado, dovrà essere corretto con l’esperimento delle relative impugnazioni, onde l’interesse a ricorrere alle Sezioni unite sorge esclusivamente rispetto alla sentenza d’appello che, essendo espressione dell’organo di vertice del relativo plesso giurisdizionale speciale, è anche la sola suscettibile di arrecare un vulnus all’integrità della sfera delle attribuzioni degli altri poteri, amministrativo e legislativo (Cass., sez. un., 17 maggio 2019, n. 13436; Cass., sez. un., 5 aprile 2019, n. 9680; Cass., sez. un., 27 aprile 2018, n. 10265)”. (cfr. Cass., sez. un., n. 6462 del 6.03.2020).
Il ricorso, tuttavia, è stato dichiarato inammissibile, in quanto fondato sulla doglianza relativa ad una pretesa erronea interpretazione operata dal Giudice contabile (error in iudicando), inidonea a configurare uno sconfinamento dei limiti esterni della giurisdizione, secondo orientamenti oramai consolidati anche relativi ai limiti al principio dell’insindacabilità “nel merito” delle scelte discrezionali, sancito dall’art. 1, comma 1, della Legge 14 gennaio 1994, n. 20. Infatti la giurisdizione della Corte dei Conti in materia di responsabilità degli amministratori o dipendenti di enti pubblici, premette la Suprema Corte, resta ancorata alla compresenza di due elementi, qualificanti la nozione di contabilità pubblica: uno soggettivo, che attiene alla natura pubblica del soggetto – ente od amministrazione – al quale l’agente sia legato da un rapporto di impiego o di servizio; l’altro oggettivo, che riflette la qualificazione pubblica del denaro o del bene oggetto della gestione nell’ambito della quale si è verificato l’evento, fonte di responsabilità (Cass., sez. un. , ord. n. 7645 del 1.04.2020).
Inoltre, viene ribadito che l’insindacabilità “nel merito” delle scelte compiute da soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti, amministratori e dipendenti pubblici, non comporta che esse siano “sottratte ad ogni possibilità di controllo, e segnatamente a quello della conformità alla legge che regola l’attività amministrativa, potendo e dovendo la Corte dei Conti verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell’ente, che devono essere ispirati ai criteri di economicità ed efficacia, rilevanti sul piano non della mera opportunità bensì della legittimità dell’azione amministrativa”. Il vaglio della condotta illecita, per accertare la sussistenza della responsabilità per danno erariale alla stregua dei criteri enunciati dall’art. 1 della L. n. 241 del 1990, configura, dunque, una valutazione in iure (ed ex ante), come tale pienamente spettante al Giudice contabile. Pertanto, premettendo che “il sindacato della S.C. sulle decisioni della Corte dei Conti è circoscritto all’osservanza dei limiti esterni della giurisdizione e non si estende – neppure a seguito dell’inserimento della garanzia del giusto processo ex art. 111 Cost. – ad asserite violazioni di legge sostanziale o processuale, concernenti il modo di esercizio della giurisdizione speciale. Ne consegue che la doglianza sull’interpretazione operata dalla Corte dei Conti delle disposizione sugli istituti giuridici venuti in rilievo nel giudizio contabile, e la prospettazione del vizio di eccesso di potere giurisdizionale fondato sulla prospettazione di una diversa interpretazione degli stessi, come nel caso in esame, attiene a soluzione che può integrare un “error in iudicando”, non inerente all’essenza della giurisdizione o allo sconfinamento dei suoi limiti esterni, ma solo al modo in cui è stata esercitata”.
- Le condotte discrezionali e vincolate
Il tema del sindacato della Corte dei conti sulle scelte gestorie della p.a., che rievoca la regola della cd. “business judgement rule” propria del diritto commerciale, è apparso ab origine problematico, volta l’incertezza della demarcazione di confine tra merito, discrezionalità amministrativa “filtrata” dai propri limiti (interni ed esterni) e discrezionalità tecnica, nel tormentato percorso della giurisprudenza amministrativa che ha condotto alla definizione delle relative nozioni per implementare l’intensità del sindacato, con riferimento ad una giurisdizione diversa, centrata non sull’atto, bensì sull’antigiuridicità del comportamento e sull’ingiustizia del nocumento erariale, sul presupposto della violazione di norme giuridiche (estranee, dunque, al merito). Infatti, come è ammesso il sindacato del Giudice amministrativo sul vizio di legittimità dell’eccesso di potere, pur restando al medesimo precluso il vaglio di merito degli atti amministrativi (salve le ipotesi di legge), da tempo la giurisprudenza contabile ha applicato per l’accertamento delle condotte pregiudizievoli degli agenti pubblici canoni di “giuridicità sostanziale” costituenti al contempo “indici di misura del potere amministrativo e confini del sindacato giurisdizionale”, quali parametri legali di buon andamento ed imparzialità dell’agere, secondo approdi ampiamente condivisi anche dal Giudice regolatore della giurisdizione che ha abbandonato iniziali orientamenti restrittivi, consolidandosi su posizioni evolutive, coerenti con l’ampliamento del sindacato erariale sia dal lato del soggetto danneggiante, che da quello dell’Ente danneggiato.
Tale sindacato, pertanto, si svolge attraverso una “attenta comparazione tra i costi sostenuti ed i risultati conseguiti o perseguiti”, tra idoneità mezzi e fini, nei termini di “un controllo di ragionevolezza sulle scelte della pubblica amministrazione, onde evitare la deviazione di queste ultime dai fini istituzionali dell’ente e permettere la verifica della completezza dell’istruttoria, della non arbitrarietà e proporzionalità nella ponderazione e scelta degli interessi, nonché della logicità ed adeguatezza della decisione finale rispetto allo scopo da raggiungere”, con il limite dell’impossibilità di sostituirsi all’amministrazione nel compimento delle scelte di opportunità e convenienza, trasformandosi da “operatore di giustizia” in “amministratore”, con invasione dell’ambito riservato all’amministrazione. Alla luce del dovere di buona amministrazione, in rinnovata accezione funzionale, il significato del “buon andamento” si è quindi spostato da quello di “andamento formalmente corretto a quello di andamento sostanzialmente buono”. In altri termini, poiché ciò che distingue l’attività amministrativa discrezionale da quella vincolata è la possibilità di scelta tra più comportamenti leciti, in questi casi il Giudice contabile è chiamato a verificare, con giudizio ex ante, se la scelta operata corrisponda di per sé a criteri generali di economicità ed efficacia, oltre che di logica e ragionevolezza (cfr., ex plurimis, Corte dei conti, SS.RR., n. 904/A del 30.9.1993 e n. 30/A del 3.06.1996; Cass., sez. un., n. 469 del 10.7.2000, n. 33 del 29.01.2001; n. 6851 del 6.05.2003; e, per l’orientamento estensivo ormai consolidato, cfr. Cass., sez. un, n. 14488 del 29.09.2003; n. 21660 del 13.10.2009; n. 4283 del 21.02.2013; n. 6820 del 15.03.2017; n. 30419 del 23.11.2018; n. 3159 del 1.02.2019; n. 9680 del 05.04.2019; n. 30527 del 22.11.2019; n. 6462 del 6.03.2020; n. 7645 dell’1.04.2020 e n. 19085 del 14.09.2020).
La regola settoriale, pertanto, appare attuativa del principio di separazione fra i poteri dello Stato ed in funzione della tutela dell’erario oltre che del buon andamento (artt. 81 e 97 Cost.), ancorando il sindacato giurisdizionale ai parametri legislativi della legalità e della compatibilità rispetto ai fini istituzionali, secondo canoni di competenza, ragionevolezza e proporzionalità, senza alcuna ingerenza nel merito, per cui è prevista l’esimente dell’insindacabilità. Tra le numerose e diverse fattispecie concrete cui sono stati applicati tali declinati principi, senza pretesa di esaustività, si rammentano decisioni relative al contenzioso delle amministrazioni, tra cui in particolare scelte transattive, conferimento di incarichi e consulenze esterne, spese per rappresentanza e donativi, sovrapprezzi versati nelle compravendite, gestioni diseconomiche di cespiti patrimoniali, contributi pubblici anche con riferimento alle erogazioni ai Gruppi consiliari all’interno delle assemblee legislative regionali, quali proiezioni delle formazioni politiche. Infatti, a prescindere dalla soluzione cui si intenda accedere per la controversa natura giuridica dei Gruppi medesimi (privata, pubblica o mista nell’essere “una realtà complessa e multiforme”), secondo i diversi approdi della giurisprudenza costituzionale, di legittimità ed amministrativa, è risultata confermata la giurisdizione e l’ambito cognitivo del sindacato della Corte per il corretto utilizzo dei fondi destinati al loro funzionamento, quale attività materiale di gestione delle risorse finanziarie stanziate, pacificamente non esteso al merito delle scelte discrezionali e circoscritto allo scrutinio della liceità delle spese rendicontate alla stregua del parametro di inerenza, stante le funzioni pubblicistiche svolte, la definizione legale degli scopi perseguiti, la natura pubblica delle somme percepite e la non operatività in tali condotte dell’immunità ex art.122, co. 4, Cost. (v. ex multis, sullo specifico tema: Corte cost., sent. 14.12.1988, n. 1130; 04.04.1990, n. 187; 06.03.2014, n. 39; 15.05.2014, n. 130 e 26.11.2014, n. 263; 09.06.2015, n. 107 e 19.11.2015, n. 235; 12.05.2016, n. 104 e 13.12.2016, n. 260; 13.01.2017, n. 10; Cass., Sez. un. dalla “storica” sent. 01.09.1999, n. 609 alle più recenti nella continuità d’indirizzi, tra cui, ord. 30.04.2019, nn. 11503-11505 e 17.04.2019, nn. 10768-10772; sent. 28.02.2020, nn. 5589 e 5590; ord. 15.04.2020, nn. 7835 e 7836, oltre che ord. 15.09.2020, nn. 19171 e 19173). La Corte dei Conti, pertanto, è chiamata a individuare nei casi concreti il punto di equilibrio tra tutela delle risorse collettive ed autonomia degli apparati amministrativi, “come organo posto al servizio dello Stato-comunità, e non già soltanto dello Stato-governo (….) garante imparziale dell’equilibrio economico-finanziario del settore pubblico e, in particolare, della corretta gestione delle risorse collettive sotto il profilo dell’efficacia, dell’efficienza e della economicità” (Corte cost., sentenza n. 29 del 19.01.1995, punto 9.2 cons. in diritto).
- La natura del contributo di costruzione
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 30 agosto 2018, n. 12 che ha dato seguito a quanto statuito dall’antecedente pronuncia 7 dicembre 2016, n. 24, richiamando la consolidata giurisprudenza amministrativa secondo cui “il contributo per gli oneri di urbanizzazione, per quanto non abbia natura tributaria, costituisce, comunque, un corrispettivo di diritto pubblico posto a carico del costruttore”, quale compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, ha chiarito che: “gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica”, affermandone la natura paritetica. Quali atti amministrativi unilaterali d’accertamento, classificati dalla dottrina tra quelli a carattere non provvedimentale consistenti in manifestazioni di volontà, idonee a determinare il contenuto di obblighi in relazione ad un dato rapporto di carattere patrimoniale, si risolvono nella specie “in un mero atto ricognitivo e contabile, in applicazione di rigidi e prestabiliti parametri regolamentari e tabellari”, con possibilità di modifiche unilaterali da parte dell’Amministrazione, in base all’andamento degli indici ISTAT, nei termini di prescrizione ordinaria ex art. 2946 c.c.
Il pagamento del “corrispettivo di diritto pubblico, proprio per il fondamentale principio dell’onerosità del titolo edilizio introdotto dall’art. 1 della l. n. 10 del 1977 … e poi recepito dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2011, e come tale, benché esso non sia legato da un rigido vincolo di sinallagmaticità rispetto del rilascio del permesso di costruire, rientra anche, e coerentemente, nel novero delle prestazioni patrimoniali imposte di cui all’art. 23 Cost.” e “non può che costituire l’oggetto di un ordinario rapporto obbligatorio, disciplinato dalle norme di diritto privato, come prescrive l’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990”. E’ stato evidenziato, a tutela dell’interessi finanziari dell’ente locale, che la natura dell’atto “non esclude la doverosità della rideterminazione quante volte la pubblica amministrazione si accorga che l’iniziale determinazione degli oneri di urbanizzazione sia dipesa da un’inesatta applicazione delle tabelle o anche da un semplice errore di calcolo. Il Comune è pur sempre, infatti, titolare del potere-dovere di richiedere il contributo di costruzione secondo i parametri e nei limiti fissati dalla legge e dalle disposizioni regolamentari integrative fissate dalle Regioni, facendone una applicazione vincolata alla predeterminazione di coefficienti, che il privato deve conoscere e ben può verificare”, restando il credito dell’amministrazione assistito, per la sua particolare finalità, da particolari sanzioni e da speciali procedure coattive di riscossione di cui agli artt. 42 e 43 del medesimo T.U.E..
La successiva giurisprudenza contabile, sul tema dell’attualità del danno, in particolare da mancati adeguamenti ovvero da altre condotte omissive, ha sviluppato due orientamenti Per il primo, in coerenza con i prevalenti pregressi indirizzi, “la riconosciuta natura corrispettiva del rapporto tra il pubblico potere e il privato abilitato – che include la facoltà del primo di provvedere nel termine decennale alla rideterminazione del contributo – non incide sull’attualità e sulla concretezza del danno patito dal Comune nel ricevere un corrispettivo non adeguato al titolo rilasciato” (cfr. Sez. I Cent. App., sent. n. 173 del 31.07.2019 e Sez. III Cent. App., sent. n. 80 del 23.04.2020). Per l’altro, viene chiarito “come la rideterminazione, ex post, dei contributi dovuti, per aggiornamento alla variazione ISTAT, […], oltre a risultare perfettamente rispondente alle facoltà correlate alla natura obbligatoria del rapporto, pone nelle condizioni l’amministrazione di conseguire il quantum ancora dovuto, attraverso l’attività di riscossione tempestivamente attivata.”(cfr. Sez. II Cent. App., sent. n. 215 del 28.09.2020), con la conseguenza, sul piano della responsabilità amministrativa, del mancato concretizzarsi dell’elemento oggettivo del danno finché corra il termine prescrizionale, restando sino ad allora consentite le procedure di recupero. “La possibilità di integrale riscossione del quantum dovuto neppure trova limite nella tutela del legittimo affidamento e del principio di buona fede dei cittadini (art. 1175 e 1375 c.c.), tenuto conto che, come chiarito dalla giurisprudenza “ordinariamente, l’oggettività dei parametri da applicare al contributo di costruzione rende vincolato il conteggio da parte della pubblica amministrazione, consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità da parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza”.
Tali indirizzi confermano l’intensità del sindacato contabile, anche a fronte della cd. riserva di amministrazione, sulla scorta della considerazione che le scelte discrezionali possono evidentemente estrinsecarsi sia nell’agere autoritativo provvedimentale delle Amministrazioni, che privatistico nei termini in cui presuppone “a monte” una scelta amministrativa discrezionale (come nell’attività contrattuale e nella gestione del personale privatizzato), nelle modalità consentite ed anzi valorizzate dall’art. 1, comma 1bis della L. n. 241/1990 che dispone: “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. Inoltre, per la dottrina e la giurisprudenza amministrativa restano censurabili attraverso un sindacato intrinseco, nei limiti della congruenza, proporzionalità e ragionevolezza anche i cd. poteri vincolati e la cd. discrezionalità tecnica, il cui scopo è di accertare la sussistenza delle condizioni previste dalla legge attraverso un giudizio di contenuto scientifico implicante la scelta tra più soluzioni tecniche prospettabili in relazione all’adozione dell’atto, ove il sistema di riferimento di regole non giuridiche appartengano ad un sistema di leges artis opinabile e non universale (soft sciences), non potendo il Giudice sostituirsi all’autorità amministrativa nelle valutazioni opinabili di fatti, al pari di quanto avviene per le scelte di opportunità nel merito dell’azione amministrativa (in caso di discrezionalità amministrativa), in difetto sostanziando l’eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento.
- Brevi osservazioni non conclusive
La rimarcata delimitazione “esterna” della giurisdizione contabile potrebbe rilevarsi ulteriormente “mobile” a seguito della recente rimessione alla Corte di Giustizia Ue in via pregiudiziale ex art. 267 TFUE delle tre questioni sollevate dalle Sez. unite della Suprema Corte sulla portata del concetto di “motivi inerenti alla giurisdizione”, sotto il profilo del cd. “difetto di potere giurisdizionale” ed in relazione al principio di effettività della tutela garantito dall’art. 47 della Carta di Nizza, che ripropongono antecedenti concezioni elastiche ed evolutive nonostante l’approdo di cui alla citata sentenza della Corte Costituzionale n. 6/2018, in particolare, se si ritenga ammissibile il ricorso di ultima istanza contro le sentenze del Consiglio di Stato che siano fondate su una interpretazione contrastante col diritto dell’Unione, per evitare la formazione di un giudicato con questo in contrasto; in subordine, se tale ricorso sia ammissibile anche nel caso il Giudice speciale d’appello abbia omesso di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, con un’interpretazione delle norme che si risolva nel negare l’accesso alla tutela giurisdizionale garantita dall’ordinamento (ord. n. 19598 del 18 settembre 2020). Nel caso in cui la Corte di Giustizia, chiamata ad “arbitrare” il nuovo contrasto tra Corti supreme nazionali, avallasse le prospettazioni della Cassazione ritenendo che vi siano margini per una rilettura dell’art. 111, 8° comma, Cost., potrebbero dunque (ripro)porsi gli interrogativi “tormentati e controversi” sull’estensibilità del sindacato di legittimità del supremo Organo di nomofilachia alle sentenze degli Organi di vertice della giurisdizione contabile ed amministrativa, anche nei confronti degli errores in procedendo et in iudicando ed a prescindere dalla violazione del diritto europeo, con abbandono della dicotomica contrapposizione tra limiti interni ed esterni, nell’evoluzione del concetto di giurisdizione dall’an al quomodo dell’esercizio.
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