IL VALORE DEL BENE PUBBLICO: UN PUNTO DI INCONTRO FRA SCIENZE

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA NOZIONE DI VALORE

Il concetto di “Valore” è un punto cruciale di contatto e confronto fra Diritto ed Economia.

Il Diritto si confronta con il concetto di Valore quando tratta di contratti, obblighi, danni, indennizzi, e in mille altri contesti in cui sorge l’esigenza di individuare, in termini e modalità soddisfacenti sul piano giuridico, un’entità valorizzabile e poi stabilire la misura di tale qualità. Ciò può sembrare relativamente semplice -perfino banale- fintanto che si tratti di normali rapporti economici che interessano enti (beni, servizi, titoli, diritti…) normalmente e diffusamente scambiati sul mercato. Ma quanto più ci si allontana da tali ambiti, tanto più il problema di definire e quantificare un Valore che abbia senso sul piano giuridico può risultare difficile. Esso certamente assume particolare complessità quando si entra nell’ambio specifico della giustizia contabile[1], dove si tratta segnatamente di enti che presentano caratteristiche distintive che li rendono poco o per nulla trattabili dal punto di vista economico: il bene pubblico, il danno all’erario, il beneficio o l’interesse collettivo, il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione e così via. L’esigenza di associare a queste situazioni, e ad altre similmente non-economiche, una misura di Valore oggettivo e soddisfacente sul piano giuridico, fatalmente solleva una questione di metodo.

Per l’Economia, d’altra parte, il concetto di Valore è assolutamente centrale; si potrebbe affermare, anzi, che l’intera materia si risolve proprio nella trattazione di questo concetto. Cos’è il Valore e come se ne può misurare l’entità; come si crea, come si accresce, come si depaupera o si distrugge; quali rapporti e processi sottendono al suo possesso, scambio, distribuzione o accumulazione: queste sono le questioni intorno a cui si è sviluppata la scienza economica. Da Smith e Ricardo, poi in Marx, Mills, Pareto e Keynes, l’evoluzione del pensiero economico si può ripercorrere seguendo la continua e sempre più articolata formulazione del concetto di Valore, e nella costruzione dei metodi e dei modelli atti ad analizzare scientificamente le fenomenologie ad esso connesse.

È perciò fatale che il giurista incontri l’economista proprio nel punto in cui il Diritto -in particolare quello contabile- affronta il problema della definizione e misura del Valore. Ed è l’Economia che può suggerire i metodi, criteri e modelli di riferimento che possono condurre il Diritto alla soluzione del problema.

Le diverse nozioni di Valore e le sue possibili misure

Il concetto di Valore ricorre con diverse accezioni nei più diversi ambiti – fino a quello suo massimo e più specifico dell’Economia. Il Valore è definito e misurato in relazione ad enti che vanno dai più semplici e materiali (i singoli beni, le prestazioni…) a quelli più complessi e astratti (la consistenza di un patrimonio, il risultato di una produzione, il valore di un’impresa, l’ammontare di un obbligo) e ai grandi aggregati contabili di un intero sistema (il prodotto di un settore, il reddito nazionale, la domanda finale).

In rapporto a questa estrema varietà di accezioni e ambiti di riferimento trovano applicazione una altrettanto vasta varietà di criteri di riconoscimento e metodi misura del Valore, basati secondo i casi sul costo, sul reddito, sulla propensione all’acquisto eccetera. Tutte queste definizioni e metodologie trovano però alcune sintesi, via via più generali, anche in relazione anche ai processi e ai momenti in cui le diverse possibili nozioni e misure del Valore devono trovare una convergenza, una quadratura o una possibile validazione oggettiva.

La più generale e trasversale fra queste è quella che definisce il Valore di un ente come il corrispettivo monetario del trasferimento del suo possesso, effettivo o potenziale, riconosciuto come congruo in un accordo fra i soggetti interessati: in pratica, il suo prezzo di scambio. Questa nozione è la più oggettiva, universale e meglio verificabile fra le diverse possibili misure, e incorpora le più disparate ed eterogenee valutazioni che possono essere fatte dai soggetti interessati all’ente, alle soluzioni e risorse che sono funzionali alla sua produzione, ai benefici che possono conseguire dal suo possesso e godimento, alla sua maggiore o minore sostituibilità o surrogabilità, alla sua durevolezza. Tutte queste proprietà raggiungono la loro massima espressione quanto più ampio e “liquido” è il contesto di mercato in cui l’ente è scambiato, quanto più numerosi sono i soggetti-attori che vi hanno accesso e quanto più aperta è la concorrenza fra questi in merito ai più disparati possibili processi produttivi e ambiti di impiego dell’ente, quanto più frequenti e numerosi sono gli scambi che lo interessano. L’accordo di scambio è il momento in cui tutte le possibili valutazioni, più o meno soggettive e ipotetiche, in merito al costo e alla desiderabilità di un ente vengono validate e diventano oggettive.

Affermare che un ente ha un dato Valore equivale a riconoscere che quello stesso ente è un “bene”, scambiabile con altri “beni”[2] a quel definito valore; e che perciò il suo possesso, o in termini più generali il titolo che si può detenere a disporne o goderne, costituisce “ricchezza”. Questa, quindi, è la definizione che rende un ente riconoscibile come bene economico: è “economico” tutto ciò, e solo ciò, che può essere scambiato a un dato prezzo.

I limiti intrinseci della possibile valorizzazione del “bene pubblico”

Avendo stabilito che la più piena possibile nozione di Valore è quella che lo definisce come prezzo di scambio, risulta subito chiaro perché per i “beni pubblici” il problema della valorizzazione può risultare particolarmente complesso. Per questi enti, infatti, spesso vengono meno proprio alcuni degli elementi essenziali che concorrono al riconoscimento della loro potenzialità in un contesto di scambio, nella misura dei costi connessi alla loro costituzione, nell’analisi delle loro potenzialità reddituali.
È fin troppo facile osservare, ad esempio, quanto spesso il “bene pubblico”…

…si costituisce e viene ad esistere in conseguenza di un atto o processo politico, sovrano e insindacabile, o comunque in relazione a particolari stati di necessità ed opportunità che non necessariamente (anzi, quasi mai) sono riconducibili a normali dinamiche di incontro fra domanda ed offerta – circostanza che rende impossibile associare al bene valenze quali la “desiderabilità”;

…non è e non potrà mai essere, neanche in ipotesi, oggetto di scambio in contesti che possano definirsi “di mercato”, e neanche presenta caratteristiche che lo rendano assimilabile, surrogabile o sostituibile con altri beni o servizi che siano a loro volta normalmente scambiati in contesti di mercato – motivo per cui diviene impossibile associare al bene un “prezzo” riconducibile a una negoziazione;

…nella sua costituzione incorpora elementi rilevanti, materiali o immateriali, che a per loro stessa natura non sono e non possono essere oggetto di scambio – circostanza che rende arduo calcolare per il bene che da questi è composto un “costo di produzione” o “di ripristino”;

…esprime la sua utilità in modalità e contesti in cui gli atti dei soggetti coinvolti sono regolati per legge ed hanno carattere, secondo i casi, di obbligo e/o di diritto – situazione per cui le scelte di questi stessi soggetti non rappresentano il risultato di valutazioni di preferenza, gradimento o convenienza;

…è istituito e viene ad esistere con funzione di incentivo o deterrente, ovvero per determinare effetti compensativi o correttivi rispetto ad altri fenomeni o dinamiche economiche originate da altre relazioni e dinamiche essenzialmente economiche – circostanza che configura il bene come “antieconomico” per sua stessa origine e finalità.

È quindi forse più corretto ed utile impostare la questione della valorizzazione dei beni pubblici assumendo come base di partenza del ragionamento che la natura precipua e distintiva di tali beni è proprio quella di NON essere sempre e del tutto valorizzabili, in quanto “non-economici” per definizione. Ciò consente di affrontare il problema della valorizzazione avendo assunto a priori che questa potrà (anzi, più spesso dovrà) necessariamente risolversi in un esercizio di confronto fra diversi possibili premesse, procedimenti e metodi, e quindi poi anche fra i diversi risultati a cui, a partire da tali basi, si può pervenire.

Si potrà così, ad esempio, secondo il contesto e l’esigenza, elaborare un calcolo del valore di un particolare bene pubblico che rappresenti in modo congruo la desiderabilità del bene in termini di aspettativa reddituale valutata da chi può goderne, ma che magari non rappresenta affatto la struttura e natura dei costi che si devono sostenere per produrlo; oppure, seguire un metodo che stabilisca una misura del valore in termini comparativi rispetto ai valori di altri beni economici ad esso sostituibili, ma che potrebbe non rappresentare un livello di prezzo sostenibile in un ipotetico contesto competitivo di offerta sul mercato; oppure ancora, completare un’analisi contabile accurata dei costi aggregati che si devono sostenere per la produzione del bene, che magari però risulterà completamente diversa da una misura realistica di quanto lo Stato o i fruitori del bene possono risparmiare grazie al suo servizio.

Per beni economici prodotti e scambiati liberamente da una pluralità di soggetti-attori in un contesto di mercato, i processi di confronto competitivo e il continuo confronto e allineamento fra domanda e offerta fanno sì che tutte queste valorizzazioni, anche quando diverse, tendano ad allinearsi su un valore di equilibrio: se un bene è prodotto in condizioni di concorrenza, il concorso-confronto fra tutti i soggetti interessati alla sua produzione, consumo e scambio, determina una pressione costante all’allineamento fra costi e prezzi, e al livellamento degli stessi rispetto a qualsiasi possibile diverso mix di fattori produttivi o ricorso a prodotti sostitutivi. Perciò, è metodologicamente corretto ritenere che la valorizzazione di un bene economico a cui si perviene attraverso uno qualsiasi dei diversi possibili diversi procedimenti, finché corretta, costituisca una misura soddisfacente valore. E’ sempre possibile che una valorizzazione basata su un dato metodo (ad esempio, per costi aggregati) non coincida con una basata su un altro (ad esempio, il valore di beni equivalenti), ed è anche possibile che tali differenze rappresentino una effettiva situazione di disequilibrio; ma si può sempre assumere che i naturali meccanismi di mercato siano costantemente all’opera per annullare tali eventuali differenze.

Per il bene pubblico, invece, non sussistendo necessariamente le condizioni di mercato per i contesti in cui si realizzano la produzione e lo scambio, si deve prendere atto che le valorizzazioni a cui si può pervenire seguendo secondo diversi metodi possono divergere anche notevolmente, e rappresentare concretamente una effettiva situazione di disequilibrio che nessun processo competitivo preme per annullare. Ne consegue che sarà corretto, anche sul piano metodologico, che l’esercizio di valorizzazione si svolga con metodi diversi, ognuno contestualizzato in rapporto ad un particolare ambito e con suoi specifici criteri di validità; dello stesso bene potranno (anzi: dovranno) perciò prodursi diverse possibili valorizzazioni, ognuna “valida” nel suo specifico ambito, fra le quali si deciderà, in base alle esigenze, quale considerare preferibile finché ne ricorrano i presupposti[3].

Posta questa fondamentale premessa, si possono finalmente considerare quali sono i diversi possibili procedimenti e modelli teorici di riferimento da porre a base di un esercizio di definizione del valore, ed esaminare quando e con quali proprietà e limiti ognuno di questi può trovare applicazione nella valorizzazione del bene pubblico.

Due famiglie di metodi per la determinazione del valore

Da quanto sopra esposto, consegue naturalmente che ove un bene sia oggetto di scambio, diffuso, ripetuto e sistematico, la misura più oggettiva e incontestabile del suo valore sarà il prezzo a cui esso viene effettivamente scambiato. Posto però che per molti beni, fra cui in primis quelli pubblici, non si può esaminare un reale contesto di scambio, la definizione del loro valore sarà tanto più soddisfacente quanto più la si potrà considerare una realistica stima di quale potrebbe essere il suo effettivo prezzo di scambio, se e quando questo avesse luogo. Perciò i metodi che si applicheranno cercheranno di quantificare il prezzo a cui verosimilmente il bene potrebbe essere scambiato, ripercorrendo le dinamiche e i fattori della sua produzione (per pervenire a un realistico possibile prezzo di offerta) e desiderabilità (idem, lato domanda).

I metodi di determinazione del valore generalmente applicati in economia, e che possono trovare applicazione anche nella valorizzazione dei beni pubblici, possono essere distinti in due famiglie:

  • Metodi oggettivi – quelli per cui la valorizzazione del bene è determinata a partire da un esame del bene e della sua composizione, degli oneri e i costi connessi all’acquisizione dei fattori che concorrono alla sua produzione e al suo successivo mantenimento (valore di offerta) e dei benefici che conseguono al suo utilizzo (valore di domanda), questi ultimi analizzati in termini reddituali o in costi evitati;
  • Metodi soggettivi – quelli per cui la valorizzazione del bene è determinata esaminando le scelte operate da chi esercita la facoltà di acquisire, utilizzare o cedere il bene stesso, a loro volta basate sulla percezione della sua desiderabilità o necessità, dell’entità dei benefici attesi derivanti dal suo eventualmente godimento, sulla sua sostituibilità, sullo sforzo richiesto per acquisirlo/goderne.

Sono esempi di metodi oggettivi tutti i sistemi e procedimenti di valorizzazione che si fondano su elementi tratti da un conto economico dei costi di produzione e di mantenimento del bene, o sulla stima dei costi associati ad un suo eventuale ripristino in caso di perdita totale, o ancora su una valutazione obiettiva dei flussi di reddito o di risparmio conseguenti a una prospettiva realistica del suo esercizio fino al suo esaurimento e dismissione.

Viceversa, le valutazioni ottenute con metodi soggettivi tipicamente si concretizzano nella determinazione del “valore” del bene (o di alcuni suoi elementi costitutivi) in riferimento al valore di altri beni che diversi attori, a vario titolo ingaggiati nella dinamica di produzione, scambio o godimento del bene stesso, considerano equivalenti, alternativi, sostitutivi o competitivi, ove di questi si possa riconoscere un valore di mercato oggettivo e ben definito.

La valorizzazione del bene pubblico basata su criteri oggettivi

Il valore di un bene pubblico può essere determinato in base ad elementi oggettivi tanto più facilmente e tanto meglio quanto più i suoi elementi costitutivi (componenti, processi di produzione e mantenimento in esercizio) e le modalità della sua distribuzione sono assimilabili a quelli di beni e servizi privati analoghi e normalmente scambiati sul mercato in paragonabile diffusione e quantità. Per converso, gli stessi metodi saranno di difficile applicazione quanto meno il bene pubblico o i suoi elementi costitutivi si presentino specifici (al limite, esclusivi) dell’ambito pubblico.

Il caso ideale in cui la valorizzazione sarà più semplice e certa è perciò quello in cui il bene pubblico sia circa uguale ad altri beni diffusamente prodotti e scambiati sul mercato da una pluralità di altri soggetti. Tale circostanza tipicamente si determina quando il bene (o servizio) pubblico è prodotto ed erogato in logica complementare e suppletiva ad altri, privati (ad esempio, nel caso di prestazioni erogate in logica di sostegno, a favore di una platea aventi diritto bisognosi). In tutti questi casi i valori associati alla produzione (costi) e scambio (prezzi) dei beni equivalenti scambiati nel sistema privato costituiscono un benchmark naturale per quelli da associare al bene pubblico, e la valorizzazione può essere svolta (e convalidata) con le stesse modalità, almeno per quanto riguarda l’ambito dei costi di produzione.

Le tipiche modalità di calcolo saranno quelle consistenti nella ricostruzione di un conto economico, anche solo figurativo, associabile al ciclo completo di produzione ed esercizio, in cui possano essere rappresentati secondo i normali principi contabili di riferimento i diversi valori riconducibili a costi ed investimenti (o più esattamente, agli ammortamenti di questi ultimi). Una difficoltà che tipicamente può presentarsi nell’esercizio applicato ad un bene pubblico è quella di rappresentare correttamente alcune componenti contabili come il valore degli investimenti e degli asset materiali che concorrono alla produzione, in quanto nel caso di un processo che abbia per oggetto la produzione di un bene pubblico questi potrebbero essere di difficile o arbitraria valutazione, e nei meccanismi di attualizzazione delle varie poste contabili rispetto al tempo. In tal caso, diviene interessante ed utile evidenziare tali differenze proprio in quanto distintive e caratteristiche delle peculiarità che il soggetto pubblico può esercitare nel realizzare il ciclo produttivo.

Analogamente, lo stesso problema può porsi nella attribuzione di un valore agli asset che sono nella disponibilità esclusiva del soggetto pubblico, che diversamente da quanto accade per un’impresa di mercato potrebbero non essere facilmente riconducibili a misure oggettive.

Quando una valorizzazione oggettiva dei costi, anche per confronto, non appaia percorribile in forma analitica su poste e attività concrete, una possibile soluzione può essere quella di procedere a una quantificazione realistica dei costi del loro ipotetico eventuale ripristino, ove le stesse risorse produttive non fossero già disponibili.

Come scritto, l’analisi svolta del valore del bene pubblico con metodi oggettivi che si svolge prendendo a confronto la produzione di beni e servizi analoghi prodotti da soggetti privati, deve essere comunque limitata alla valorizzazione dei costi. Si dovrà perciò porre attenzione ad escludere, nell’eventuale esame a fini comparativi delle attività di soggetti privati che producano beni e servizi assimilabili, delle componenti che remunerano il capitale o che coprono rischi e costi di tipica ed esclusiva pertinenza dell’impresa privata. Infatti, non sarebbe corretto considerare nella valutazione del valore della produzione da parte di un soggetto pubblico voci quali gli oneri finanziari, i canoni e i costi delle concessioni, tasse ed imposte, costi delle risorse umane rappresentanti premialità o benefit, eccetera. Per lo stesso motivo, sarebbe scorretto e semplicistico considerare, di beni e servizi equivalenti, il prezzo effettivo finale, medio o marginale: tale valore, infatti, comprende e copre -oltre alle voci citate- anche la remunerazione dell’imprenditore e della proprietà (eventualmente rappresentata dall’azionariato), componente che non può applicarsi, in una corretta ricostruzione, al soggetto pubblico produttore.

Ove la ricostruzione analitica dei costi si presenti ardua o incerta, e l’unica analisi possibile fosse quella dei prezzi effettivi di offerta, si dovrà allora tentare -almeno- di quantificare a parte, e sottrarre, le componenti di remunerazione dei fattori di produzione tipici dell’impresa privata. Ciò consentirà, se non proprio l’esatta ricostruzione dei costi, quantomeno una loro stima corretta al netto di tali componenti.

Le valutazioni ottenute con metodi oggettivi presentano alcuni significativi vantaggi, principalmente consistenti nella loro più chiara e precisa definizione tecnico-procedurale, nei parametri di riferimento, e perciò anche nella loro più generale replicabilità. D’altra parte, la valutazione che si ottiene con metodi oggettivi in molti casi rischia di rivelarsi tanto precisa sul piano contabile quanto insoddisfacente sul piano interpretativo, in quanto prescinde completamente da un’analisi dell’utilità e delle finalità per cui il bene pubblico esiste. Valga come esempio -solo e più emblematico- il caso estremo di un bene pubblico consistente in un servizio di protezione civile o da un presidio di pubblica sicurezza; è evidente che per simili beni è relativamente facile stabilire un “valore” di tipo oggettivo (costo), che però potrebbe non rappresentare in alcun modo il “valore” che il bene stesso rappresenta per il singolo o per la collettività che ne gode.

La valorizzazione del bene pubblico basata su criteri soggettivi

Più interessante, per molti versi, è l’analisi di come si può pervenire a una soddisfacente valorizzazione del bene pubblico quando vengono meno le condizioni appena esposte, ovvero…

…quando nell’esercizio di valorizzazione si rileva che una parte sostanziale degli elementi costituitivi del bene non è valorizzabile in modo soddisfacente con criteri oggettivi;

…quando il bene e/o i suoi elementi costitutivi più rilevanti, per natura, contenuto o modalità produttiva, sono tali da non poterne trovare di assimilabili prodotti nel settore privato;

…quando i benefici prodotti dal bene non sono confrontabili con altri che siano diffusamente oggetto di scambio in un contesto di mercato.

Questa situazione è in effetti la più frequente che si incontra quando il bene o servizio afferisce a processi e contesti tipici dell’ambito pubblico.

In questi casi si può tentare di pervenire a una valorizzazione del bene pubblico considerando le scelte di tipo economico che possono essere operate da diversi attori, a vario titolo attivi in contesti di produzione e scambio che possano essere considerati rappresentativi delle dinamiche che interessano il bene, la sua produzione o il godimento dei suoi benefici. In sostanza e più concretamente, attraverso analisi di tipo comparativo (benchmarking) si cercherà ad esempio di:

  • (lato offerta) esaminare le condizioni economiche in cui opera un possibile verosimile produttore del bene, e conseguentemente stabilire quale remunerazione un tale soggetto considererebbe congrua per intraprendere la produzione del bene stesso (immaginando di affidare la produzione del bene a un’impresa qualificata al momento operante in un diverso mercato, a quali prezzi un simile produttore troverebbe conveniente accettare l’incarico?)
  • (lato domanda) valutare i benefici connessi alla fruizione del bene in termini di costi evitati, ovvero quantificando i risparmi che dei possibili fruitori potrebbero realizzare grazie alla disponibilità del bene

In pratica, in questi casi l’esercizio di valorizzazione dovrà consistere in una stima, credibile e fondata su elementi oggettivi, dei prezzi a cui degli attori eventuali (produttori e acquirenti) troverebbero conveniente rispettivamente vendere e acquistare il bene, alla luce delle opzioni alternative disponibili. Questo particolare approccio metodologico, che si può poi concretizzare attraverso diverse tipologie di analisi, modelli e rilevazioni oggettive, rientra nella più generale cornice teorica del “Fair Market Value” (FMV), che identifica come Valore più attendibile di un prodotto o servizio il prezzo a cui questo sarebbe effettivamente scambiato su un mercato aperto, in cui acquirente e venditore avessero pieno accesso alle informazioni pertinenti, fossero liberi di operare esclusivamente in base al proprio rispettivo interesse essendo liberi da pressioni e disponendo del tempo e dei mezzi tecnici ragionevolmente necessari per completare la transazione.

È interessante rilevare che il Fair Market Value, per come è definito, può anche non coincidere con il prezzo effettivo di un bene che pure è diffusamente scambiato sul mercato, in particolare ove si rilevi che non sussistono alcune delle altre condizioni richiamate nella definizione. Questo è il caso, ad esempio, di beni e servizi che sono scambiati in condizioni di evidente asimmetria informativa fra le parti, o a fronte di vincoli ed obblighi vigenti nel contesto o in un dato periodo[4].

Le analisi utili per identificare il “Fair Market Value” possono, anzi, dovrebbero comprendere anche elementi oggettivi e prove, basati su analisi di mercato, rilevazioni dei prezzi ed evidenze di offerta, atti a consolidare i parametri di modelli affidabili dell’offerta e della domanda che potrebbe interessare il bene oggetto di valorizzazione: a quali prezzi sarebbero offerti i fattori produttivi che potrebbero comporre il bene? A quali altri prezzi dei potenziali destinatari/fruitori acquisterebbero il bene, a fronte del complesso delle alternative disponibili? Tali modelli potranno suffragare la stima di un verosimile prezzo di scambio, tale da soddisfare le aspettative di potenziali produttori e acquirenti.

Restando nell’ambito dei metodi soggettivi, possono essere anche…. devono esse oppure, ancora, pervenire ad una valorizzazione ‘convenzionale’ in base a parametri arbitrari di valore, da associare a misure di impatto o performance (quest’ultima, tipicamente, è la metodologia a cui più spesso si ricorre quando si vuole confrontare processi fra loro anche molto diversi, ma finalizzati all’ottenimento di risultati finali paragonabili).

In generale i metodi soggettivi portano a valorizzazioni più rappresentative della percezione effettiva e diffusa dei benefici o dei costi associati al bene. Perciò questi metodi risultano particolarmente efficaci quando si desidera rappresentare proprio le valenze poco “economiche” che tipicamente caratterizzano il bene pubblico. Tornando all’esempio di un servizio di protezione civile o da un presidio di pubblica sicurezza, è evidente quanto può essere importante stabilirne il “valore” in termini di benefici effettivi apportati (ad esempio: quanto potrebbe dover spendere la collettività per assicurarsi garanzie e protezioni equivalenti, acquistando i servizi necessari a produrle?). D’altra parte, con questi metodi inevitabilmente si introduce nell’esercizio di valorizzazione una forte componente discrezionale che deriva dalla scelta di cosa si può considerare paragonabile o sostituibile, e proprio per questo motivo facilmente si perviene a una quantificazione del valore che può anche non rappresentare affatto i reali costi di produzione del bene stesso.

Sempre a proposito dei metodi di valorizzazione soggettivi, è importante esaminare il caso particolare della valutazione di beni che afferiscono un contesto “misto”, in cui a fronte di un servizio pubblico sono disponibili anche servizi offerti da soggetti privati, alternativi o complementari al servizio pubblico (questo è il caso, ad esempio, della sanità o dell’istruzione). In una simile situazione la produzione e lo scambio dei beni e servizi offerti sul mercato dai privati sono fortemente condizionati dall’esistenza del servizio pubblico, rispetto a cui i primi esistono in logica complementare. È chiaro che in questo caso le dinamiche economiche e di mercato che caratterizzano i servizi privati sono tali da produrre un equilibrio di costi e prezzi completamente diverso da quello che si realizzerebbe in una ipotetica assenza del bene pubblico. Tali costi e prezzi, pertanto, dovranno essere valutati con estrema attenzione, e comunque principalmente a fini comparativi. Difficilmente essi potranno essere considerati indicativi di un valore del servizio pubblico a cui si affiancano, stante che in tali condizioni per chi produce e vende servizi che vanno a soddisfare una domanda complementare si determinano condizioni di posizionamento competitivo di nicchia che non possono, per definizione, assumersi uniformi a quelle in cui opera il servizio pubblico (valga a questo proposito l’esempio più evidente e chiarissimo di come si configurano i servizi di trasporto privato offerti a complemento e integrazione di un sistema di trasporto pubblico).

In estrema sintesi, le valorizzazioni basate su metodi soggettivi possono -anzi, devono- portare a risultati che saranno anche molto diversi a seconda della scelta a priori degli elementi che si prendono a base per la valutazione. Questo fatto non è necessariamente indice di una valorizzazione ‘debole’, ma anzi al contrario può essere un chiaro indice di come il valore di un bene pubblico, quando sia determinato NON su elementi puramente contabili, bensì su parametri di efficacia, contenuto, corrispettivi o valori di beni sostituibili, può risultare anche estremamente diverso dalle attese.

Qualche considerazione conclusiva

Lungi dal poter esaurire l’argomento, o meno ancora, individuare UNA soluzione preferibile rispetto ad altre per effettuare una valorizzazione del bene pubblico, al termine di queste osservazioni alcune considerazioni conclusive possono essere tratte:

  1. Agli effetti dell’esercizio di valorizzazione, è utile e corretto assumere che il bene pubblico è, per sua natura, non-economico, in quanto tipicamente mancante di una o più delle caratteristiche fondamentali necessarie per teorizzare la sua piena scambiabilità in un contesto di mercato, e perciò impossibile da associare a un prezzo.
  2. Da ciò consegue che le possibili metodologie di valorizzazione basate sull’analisi del processo produttivo e dei suoi costi, sulla misurazione della sua desiderabilità, sulla sua effettiva potenzialità reddituale o sull’analisi delle propensioni allo scambio lato domanda o offerta, che nel caso di beni economici tendono fisiologicamente a convergere in condizioni di effettiva concorrenza, nel caso del bene pubblico possono condurre a risultati significativamente divergenti; la valorizzazione del bene pubblico non può perciò prescindere dalla costruzione di più ipotesi di valore, basate su approcci diversi, oggettivi e soggettivi, e da una successiva scelta, inevitabilmente discrezionale, degli elementi più rilevanti da considerare.
  3. In ogni caso, una quantificazione del Valore del bene pubblico che possa essere anche solo minimamente soddisfacente sul piano dell’analisi economica, se non altro a fini comparativi, deve comprendere la definizione di un suo verosimile “prezzo di scambio”, anche se solo ipotetico, su cui possa provarsi convergere un “consenso” da parte di possibili produttori e/o acquirenti (a che prezzo si troverebbero operatori privati realisticamente capaci e disposti a produrre il bene? a che prezzo troverebbero degli acquirenti?), in modo da poter almeno abbozzare un modello di mercato che possa fornire un riferimento per il valore economico effettivo del bene.
  4. È perciò utile e metodologicamente corretto, ai fini dell’analisi del Valore, acquisire evidenze oggettive del possibile prezzo di offerta e della verosimile propensione all’acquisto, basate -le prime- su offerte o su conti economici aggregati afferenti a processi produttivi assimilabili e -le seconde- su test di mercato atti a descrivere una verosimile curva di domanda.
  1. A questo proposito, è interessante richiamare l’esordio della originale definizione normativa delle competenze della Corte dei Conti, la quale (l. 14.8.1862 n.800, art. 10) “…fa il riscontro delle spese dello Stato; Veglia alla riscossione delle pubbliche entrate; Veglia perché la gestione degli agenti dello Stato in denaro o in materia sia assicurata con cauzione o col sindacato di speciali revisori; Accerta e confronta i conti dei ministeri col conto generale dell’Amministrazione delle finanze prima che siano presentati alle Camere; Giudica dei conti che debbono rendere tutti coloro che hanno maneggio di denaro o di altri valori dello Stato e di altre pubbliche amministrazioni designate dalle leggi”.

  2. Usiamo da qui in poi per brevità il termine “bene” come equivalente di “ente economico”, indicando con esso non solo i beni materiali ma anche servizi, titoli, prestazioni, o comunque qualsiasi entità che sia potenzialmente oggetto di scambio, e quindi valorizzabile.

  3. Valgano a questo proposito, solo a titolo di esempio estremo, la valorizzazione di beni pubblici di assoluta e preminente rilevanza come la sicurezza, la giustizia o la salute pubblica, per i quali possono sussistere -a livello di singolo evento o contesto, come a livello generale- valorizzazioni anche totalmente divergenti che rappresentano, da un lato, i costi che ne garantiscono l’esistenza, dall’altro il loro valore effettivo per la collettività in termini di danno eventuale conseguente al loro venire meno, o al costo che qualcuno potrebbe sostenere per assicurarsi benefici equivalenti.

  4. Per riflettere su un esempio che è ben presente nella memoria recente del nostro paese: difficilmente si potrebbero considerare oggi i prezzi correnti dei materiali nel settore dell’edilizia come indicativi del loro “Fair Market Value”, considerando il peso imponente delle norme che hanno interessato il settore sovvertendo completamente le logiche sottostanti ai processi decisionali dei singoli attori.

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