Il suum cuique tribuere (“a ciascuno il suo”) nelle relazioni tra Stato ed autonomie e tra le varie forme di controllo, attraverso il prisma dell’equilibrio di bilancio.
Guida alla lettura della sentenza C. cost. n. 4/2020 sulle anticipazioni straordinarie di liquidità
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I. Premessa. La Corte costituzionale con la sentenza n. 4 del 2020 ha dichiarato l’incostituzionalità di una norma che consentiva di migliorare il risultato di amministrazione degli enti che avevano in passato fatto ricorso alle c.d. anticipazioni straordinarie di liquidità. Tale miglioramento era possibile tramite l’artificio contabile dell’assorbimento del FAL (un fondo costituito per “pareggiare” l’effetto di espansione della spesa causato dal mutuo) in misura pari al FCDE.
La problematicità della norma impugnata era emersa in numerose decisioni della magistratura contabile.
La questione è stata sollevata nel giudizio di accertamento instaurato dinanzi alle Sezioni riunite in speciale composizione (ai sensi dell’art. 11 comma 6, lett. e) del Codice di Giustizia contabile) da parte del Comune di Napoli, giudizio sorto a valle della pronuncia adottata dalla Sezione regionale di controllo della Campania ex art. 148-bis TUEL: con tale decisione, la Sezione accertava un rilevante disavanzo non riconosciuto nelle scritture contabili, conseguentemente accertava l’inadeguatezza delle misure correttive adottate. Per l’effetto, con la stessa decisione, la Sezione regionale di controllo per la Campania dichiarava il blocco della spesa non obbligatoria del Comune di Napoli.
Il Comune di Napoli ha fatto ricorso chiedendo che fosse dichiarata l’erroneità dei presupposti della pronuncia, con un ricorso basato su 5 motivi.
Con la sentenza n. 5/2019 le Sezioni riunite rigettavano i primi tre motivi di ricorso (riguardanti la ricostruzione generale dell’istituto del “blocco della spesa”); sui restanti motivi di ricorso (attinenti al quantum del disavanzo e l’adeguatezza delle misure correttive) il giudizio veniva sospeso, atteso che presupponeva la risoluzione della questione di costituzionalità di alcune norme che avevano consentito di migliorare il risultato di amministrazione, mediante una mera operazione contabile, di 1,1 miliardi di euro.
Il presupposto teorico delle norme impugnate era che il mutuo fosse un’ “anticipazione” sulla futura riscossione di residui di dubbia esigibilità; pertanto non aveva senso svalutare due volte le stesse poste.
Dopo avere accolto la richiesta cautelare di sospendere gli effetti del blocco della spesa, le Sezioni riunite sollevavano questione di costituzionalità con l’ordinanza n. 5/2019.
La questione sollevata aveva ad oggetto non solo l’art. 2, comma 6 del D.L. n. 78/2015, ma anche la correlata norma di interpretazione autentica (1, comma 814, della L. n. 205/2017), di cui, la Sezione Campana con le pronunce n. 1/2017/PRSP e n. 107/2018/PRSP aveva tentato una interpretazione costituzionalmente conforme, ritenuta invece, dalle Sezioni riunite, non “sostenibile”, attesa la lettera della legge.
La Corte costituzionale ha riportato ordine e ha ricordato che il FAL ha una funzione di mera “neutralizzazione” a scopo costituzionale e non quello prudenziale di svalutare residui di dubbia esigibilità.
Infatti, il presupposto con cui ha agito il Legislatore è in sé incostituzionale e cioè che si possa finanziare con mutuo il pagamento di debiti pregressi che hanno dubbia copertura, violando l’art. 119 coma 6 Cost.
Per comprendere il ragionamento assio-logico della Corte, in questa guida alla lettura della sentenza di cui si raccomanda un’attenta lettura per la densità di questioni affrontate, bisogna fare una piccola premessa tecnica e sistematica sull’art. 119 comma 6 Cost., la c.d. “golden rule” che consente “indebitamento” solo per “investimenti”.
Tale norma ha un una ratio che si collega al principio di buon andamento, sub specie di sana gestione finanziaria e di preservazione dell’equilibrio, nonché, un valore “sistemico” di costruzione delle relazioni tra Stato e Regioni. Questo secondo senso viene richiamato dalla Corte costituzionale in questa sentenza, allargandone il “respiro”.
Occupiamoci, per il momento ed inizialmente, del primo senso.
Il presupposto “tecnico” che anima l’art. 119 comma 6 Cost. è il seguente. Se la spesa è per “investimento”, la collettività e l’ente non si impoveriscono, mantengono l’equilibrio e contraggono un debito che è sostenibile. Infatti, se l’oggetto dell’acquisto (l’effetto economico dell’operazione finanziaria) è un bene di investimento, il valore finanziario del mutuo (valuta) è immediatamente compensato da un bene di utilità pluriennale (in valore) .
La cosa si rende contabilmente evidente nello stato patrimoniale dell’ente territoriale, alla luce della contabilità economico-patrimoniale. Un investimento lascia invariato il patrimonio netto (saldo che misura la ricchezza dell’“azienda” a fine esercizio), perché a fronte del debito contratto, con il mutuo si registra anche l’ingresso prima della cassa del finanziamento (valuta) e poi del “valore” economico in cui si trasforma (una immobilizzazione).
In pratica un mutuo ha effetto immediato “neutrale” e, in prospettiva , potrebbe anche accrescere la ricchezza, grazie al valore d’uso e al reddito che un bene pluriennale è in grado di produrre.
Se il mutuo, invece, fosse destinato a spesa corrente, la contabilità economico-patrimoniale registrerebbe in via immediata o nel breve periodo una diminuzione della ricchezza collettiva (che si misura col patrimonio netto).
Questo vale sia nel caso in cui si ottenga il mutuo destinandolo a nuova e futura spesa corrente, sia se si paghino debiti pregressi.
Nel primo caso la cassa non si trasforma in nessun bene, sicché, a fine ciclo, l’attivo patrimoniale diminuisce a fronte del debito, determinando una riduzione del patrimonio netto (cioè, la ricchezza collettiva).
Nel secondo caso (pagamento debiti pregressi) si ottiene, è vero, una ristrutturazione del debito, poiché la cassa viene utilizzata per un adempimento di obbligazioni scadute, le quali vengono semplicemente sostituite da un debito di lungo periodo. In questo caso si ottiene un contingente aumento di disponibilità finanziaria, che però è anticipata, in pratica, dalle “generazioni future”.
Inoltre, il debito si accresce degli interessi e dà l’illusione finanziaria di avere più margine per nuova spesa. Tale margine, in contabilità pubblica, è costituito dalle risorse che provengono dal ciclo di reddito dell’ente, che deve avere la capacita di dare copertura contemporaneamente all’ammortamento e alla nuova spesa, pena l’aumento dell’indebitamento nel corso del tempo senza aumento stabile della ricchezza collettiva.
In buona sostanza, se si ricorre ad indebitamento per spesa diversa da investimento, la cassa introitata viene “consumata” in spesa caduca che non produce risparmi di spesa futuri, grazie al valore d’uso del bene o al reddito da questo prodotto e comporta il rischio di aggiramento del dovere di copertura ed equilibrio del bilancio.
Questo preventivo seppur sommario excursus tecnico – della cui dozzinalità si chiede scusa, ma per il quale si chiede indulgenza visto lo scopo divulgativo di questa “guida alla lettura” – serve anche per comprendere in cosa consiste il FAL.
Il FAL è necessario in contabilità finanziaria pubblica perché l’indebitamento per spesa corrente non è solo, apparentemente neutro, ma produce persino un miglioramento contingente del “risultato di amministrazione” che può dare copertura a spesa futura in forme di “riserve” applicate agli esercizi futuri.
È appena il caso di ricordare in cosa consiste il “risultato di amministrazione”. La contabilità finanziaria pubblica misura solo la “ricchezza finanziaria”, ossia il saldo tra risorse finanziarie disponibili (crediti – ossia i residui attivi – e la cassa) e debiti (attuali, nonché passività potenziali e oneri futuri “attualizzato” attraverso i fondi). Questo saldo si chiama, appunto, “risultato di amministrazione”.
In entrambi i casi considerati (nuova spesa corrente o pagamento di debiti pregressi) il risultato di amministrazione aumenta, dando l’illusione di un aumento di ricchezza.
Se il risultato di amministrazione è negativo, il suo risanamento con mutuo non è possibile. E ciò non solo per l’evidente ragione che non si risana un debito con un debito, ma anche per una questione tecnica.
Esso è un saldo indifferenziato ed unitario: in contabilità finanziaria, il disavanzo non è mai ascrivibile con certezza ad una tipologia di spesa (spesa di investimento), ragione per cui è per definizione “spesa diversa da investimento”. Sotto questo aspetto la spesa a copertura del disavanzo è equiparabile a spesa corrente, poiché non è possibile isolare spesa per investimento e spesa per utilità correnti (che si traducono in mero “consumo” di ricchezza).
Pertanto i mutui c.d. a stralcio del disavanzo non sono possibili perché finanziano una spesa “corrente”.
Tanto premesso, chiarito che i mutui destinati a spesa corrente non creano vera copertura, si deve chiarire cosa è il FAL.
Il FAL è un fondo che, appunto, ha una funzione di “neutralizzazione” (sul tema si rinvia a SRC Campania n. 110/2018/PARI, All. A, § 3.2), per evitare che l’ente crei all’interno del risultato di amministrazione margini per coperture per nuova spesa che sono illegittime, ai sensi dell’art. 119 comma 6 Cost.
L’art. 2, comma 6, del D.L. n. 78/2015 consentiva di fare “scomparire” il FAL, replicando la situazione iniziale che il FAL voleva “neutralizzare” (sebbene la Corte dichiari “assorbita” la censura di incostituzionale sotto il profilo dell’art. 136 Cost., cioè, violazione del giudicato costituzionale): di qui la dichiarazione di incostituzionalità per violazione del combinato disposto degli artt. 81, 97 e 119 comma 6 Cost.
II. Il contenuto della sentenza. Tanto premesso, la sentenza si segnala per alcuni snodi argomentativi che gettano nuova luce su alcuni aspetti nevralgici del diritto costituzionale del bilancio post L. cost. n. 1/2012 e n. 3/2001; nell’ordine:
- sul senso “organizzativo” dell’art. 119 comma 6 Cost.;
- sul senso della “nomofilachia” nella funzione di controllo, aumentando la divaricazione tra controllo di legittimità-regolarità e le altre forme di controllo previste dall’ordinamento;
- sul senso della contabilità pubblica, chiarendo quali sono i contenuti essenziali del rendiconto, il concetto giuridico-economico di copertura, facendo chiarezza e distinguendo i vari fondi al servizio del principio di chiarezza e verità dell’esposizione contabile.
Andiamo per ordine.
Punto 1. L’art. 119 comma 6 non è una isolata ed eccentrica norma sulla capacità giuridica speciale degli enti territoriali, una monade, ma si inserisce a pieno titolo nel sistema delle autonomie: essa non ha solo la sopra indicata giustificazione tecnico-pratica, ma è anche una norma sui rapporti tra Stato ed enti territoriali. Infatti, ricordare che lo Stato non può indebitare all’infinito le autonomie territoriali per rimediare ad un loro squilibrio è un modo, per il Legislatore costituzionale, di “chiudere” a possibili elusioni dei rapporti di “potere” e responsabilità fissati nel Titolo V, che onera lo Stato di garantire l’unità economica e giuridica della Repubblica (art. 5), mediante i fondi di cui allo stesso art. 119.
La sentenza ci ricorda questa secondo e connesso “senso” dell’art. 119, comma 6, quando collega l’art. 119 comma 6 ai precedenti commi 3, 4 e 5.
Per garantire questo sistema di responsabilità la Legge cost. n. 3/2001 ha immaginato un doppio circuito di chiusura: appunto, il 119 comma 6, e, in secondo luogo, il potere sostitutivo dell’art. 120, basato su “presupposti e procedure di legge” (cfr. C. cost. sent. n. 49/2018).
Infatti, garantire che le risorse complessivamente disponibili per l’ente territoriale siano sufficienti e destinate a garantite l’uguaglianza su tutto il territorio secondo un minimum standard (117 comma 2 lett. m) Cost.), è responsabilità statale, che deve compensare le minori “capacità fiscali” dei territori (cfr. corpo della sentenza, in particolare punto 4 Cons. in diritto).
Le autonomie territoriali, per parte loro, tramite tali risorse, proprie e derivate, devono garantire l’equilibrio (comma 1) che riguarda anzitutto ed essenzialmente la spesa corrente (atteso che la sostenibilità del debito, per gli enti territoriali, deriva dalla sua destinazione a spesa d’investimento).
L’ente territoriale deve quindi garantire l’equilibrio del bilancio sul terreno della spesa coerente, anche sotto il profilo del recupero del disavanzo, mentre può ricorrere all’indebitamento solo se verso spesa “produttiva”, che non diminuisce cioè la ricchezza collettiva.
Lo Stato, peraltro, con la propria legge di bilancio esercita la discrezionalità del legislatore, stabilendo le condizioni, i termini, le dimensioni di accesso ai fondi di finanza derivata, secondo ragionevolezza; stabilendo altresì i presupposti e le procedure del potere “sostitutivo” in caso di grave violazione dei doveri e responsabilità di bilancio da parte delle autonomie.
Questa responsabilità può essere fatta valere in varie forme di temporanea riduzione, o addirittura di elisione, dell’autonomia, ove ciò sia necessario per ripristinare le condizioni di continuità amministrativa, in uno stato di “sana” gestione finanziaria.
Il ricorso a continui mutui della Cassa depositi e prestiti non risolve le cause strutturali dei disavanzi: fa abdicare, contemporaneamente, ai doveri di enti territoriali e Stato. I primi tenuti a gestire in modo congruo le risorse. Il secondo, tenuto a colmare deficit di capacità fiscale e, in ogni caso, impedire che lo stato di decozione travolga l’eguaglianza dei cittadini, impedendo l’erogazione dei LEP.
La Corte ricorre al combinato disposto degli artt. artt. 81, 97, primo comma, e 119, sesto comma, Cost.: «I tre parametri, per quel che si dirà più specificamente in seguito, operano in stretta interdipendenza, cosicché l’anomala utilizzazione delle anticipazioni di liquidità consentita dalle disposizioni impugnate finisce per ledere l’equilibrio del bilancio, il principio di sana gestione finanziaria e, contemporaneamente, viola la “regola aurea” contenuta nell’art. 119, sesto comma, Cost., secondo cui l’indebitamento degli enti territoriali deve essere riservato a spese di investimento.»
Dichiara assorbite, invece, le censure delle norme sotto il profilo della violazione del giudicato costituzionale (art. 136 Cost.).
Punto 2. Passiamo ora al secondo punto di novità, recte, di evoluzione/precisazione di quanto già implicito nella precedente giurisprudenza.
Con l’occasione, fornita da una delle eccezioni difensive del comune controllato e ricorrente in Sezioni riunite (giudice remittente), la Corte rievoca l’interpretazione conforme data all’art. 6 comma 4 del D.L. n. 174/2012, di cui alla precedente sentenza n. 39/2014.
In quel contesto (punto 8.10 cons. in diritto) la Corte si era occupata principaliter, a seguito dell’impugnazione di una Regione che lamentava la violazione della propria autonomia normativa, del dubbio di costituzionalità avanzato su una delle norme introdotte dal D.L. n. 174/2012 (l’art. 6, comma 4) che aggiungeva – accanto a quella delle Sezioni riunite di controllo (art. 17, comma 31 del D.L. n. 78/2009) – una funzione nomofilattica esercitabile addirittura con “pronunce di orientamento”.
In primo luogo, la Corte ribadisce che nessuna funzione nomofilattica può sussistere senza un contrasto interpretativo “attivo” e concreto, o anche potenziale, ma non meramente presunto, altrimenti sconfinando dalla interpretazione alla “normazione”.
Sicché non sono possibili “pronunce di orientamento” generale “a priori”, su questioni poste su iniziativa del Presidente della Corte dei conti, senza alcun collegamento specifico a richieste di intervento nomofilattico dei presidenti delle singole Sezioni di Controllo o a forme concrete ed evidenti di “contrasti”.
Il principio affermato dalla Consulta con la sentenza in rassegna, invero, costituisce parametro operativo della nomofilachia, sotto il primo e più rilevante profilo del suo esercizio, costituito dalla preventiva valutazione di “ammissibilità” della questione deferita, ed impegna il Collegio nomofilattico a doverose motivazioni in proposito.
In secondo luogo, la Corte fornisce un criterio di coordinamento tra le varie “funzioni nomofilattiche”, riconosciute a più sezioni della Corte dei conti, ossia alla Sezione delle autonomie per questioni che nascono dall’ambito di competenza delle Sezioni regionali di controllo, alle Sezioni riunite di controllo per quel che concerne il “coordinamento” della finanza pubblica (per una ricostruzione del sistema, si rinvia all’articolo su questo sito a proposito della “nomofilachia” contabile, clicca qui)
Partendo dalla considerazione implicita che la funzione nomofilattica spetta all’organo che ha l’ “ultima parola” rispetto al casus decidendi, la Corte costituzionale osserva che poiché la funzione di controllo di legittimità-regolarità è inserita nel circuito giustiziale-giurisdizionale delle Sezioni riunite in speciale composizione (C. cost. sent. n. 18/2019), sono queste a decidere senza alcun vincolo rispetto a pronunciamenti che, peraltro, riguardano funzioni di controllo limitate: attinenti, cioè, alla funzione consultiva.
Il discorso si può facilmente estendere alle funzioni di controllo “collaborative”, che non sono in grado di determinare una lesività per il soggetto controllato o terzi, per cui non è ammesso il ricorso giurisdizionale, ai sensi dell’art. 11 del Codice di giustizia contabile.
In definitiva, alle Sezioni riunite in speciale composizione spetta la nomofilachia, quale decisore di ultima istanza, in sede di controllo di legittimità-regolarità; le ipotesi normative, tra cui l’art. 6 comma 4 del DL. n. 174/2012 (conv. L. n. 213/2012), ma anche quelle delle Sezioni riunite di controllo ex art. 17, comma 31 del D.L. 78/2009 (conv. L. 102/2009) , sono limitate alle altre forme di controllo e comunque non possono sconfinare in attività “normativa” “a priori” sganciate da un caso e da un conflitto interpretativo.
La Corte dà così un contributo di chiarezza nel dedalo delle norme richiamate che pongono non pochi problemi di coordinamento sistemico in sede di svolgimento dalle funzioni di controllo da parte della Corte dei conti (su cui cfr. qui) .
Punto 3. Venendo poi ai principi costituzionali che innervano la contabilità pubblica, la Corte aggiunge tasselli al sistema costruito sul sistema di accontuability e di solidarietà intergenerazionale, e chiarisce:
- i limiti alla discrezionalità legislativa nel configurare anticipazioni straordinarie di liquidità e la disciplina contabile necessaria da evitare la violazione dell’art. 119 comma 6 Cost., elaborando un vero e proprio test di legittimità;
- la declinazione del concetto costituzionale di copertura in termini giuridici ed economici;
- una chiara enunciazione dei limiti costituzionali di piani di risanamento costruiti sull’attuale paradigma di sostegno, a debito, della spesa corrente, senza un sostegno della spesa di investimento e una “prioritaria” attribuzione di risorse sugli enti territoriali sulla base delle “capacità fiscali”.
- il contenuto minimo della legge di rendiconto, aggiornando la giurisprudenza della sentenza n. 49/2018;
- infine, come operano gli effetti retroattivi della pronuncia di incostituzionalità su un oggetto che è ciclico e pertanto dinamico (il bilancio), ragione per la quale alcuni effetti, poiché hanno una radice nel passato, si declinano sul bilancio in corso “ora per allora” (come chiarito dalla giurisprudenza contabile sulla “riedizione” del riaccertamento straordinario).
Punto 3.1. Sul primo versante si segnala il seguente passaggio: «4.1.– L’art. 119, sesto comma, Cost. risulta violato perché le anticipazioni di liquidità costituiscono una forma straordinaria di indebitamento a lungo termine e – in quanto tali – sono utilizzabili in senso costituzionalmente conforme solo per pagare passività pregresse iscritte in bilancio. Esse sono prestiti di carattere eccezionale finalizzati a rafforzare la cassa quando l’ente territoriale non riesce a onorare le obbligazioni passive secondo la fisiologica scansione dei tempi di pagamento.
La loro eccezionalità dipende essenzialmente dal fatto: a) di essere inscindibilmente collegate a una sofferenza della cassa; b) di essere frutto di un rigoroso bilanciamento di interessi rilevanti in sede costituzionale e dell’Unione europea; c) di essere un rimedio contingente, non riproducibile serialmente nel tempo e inidoneo a risanare bilanci strutturalmente in perdita» (enfasi aggiunta).
Sono pertanto illegittime le forme di ricorso a mutui per sostenere la spesa futura degli enti in crisi, che seppure contabilizzate con forme analoghe all’anticipazione ex D.L. n. 35/2013, di fatto consentono nuova spesa senza copertura. Questo potrebbe accadere con riferimento a nome di dubbia costituzionalità, quelle dell’art. 243-quinquies TUEL (mutuo a favore dei comuni disciolti per infiltrazioni della criminalità organizzata) e l’art. 243-ter (fondo di rotazione per i comuni in piano di equilibrio pluriennale), specie dopo il correttivo ai principi contabili di cui al 1° agosto 2109.
Punto 3.2. Sul secondo versante, si registra un allineamento tra la giurisprudenza contabile e quella costituzionale secondo cui la copertura di una spesa deve essere non solo giuridica, ma anche economica, garantendo la c.d. sostenibilità finanziaria (concetto già declinato dalla pronuncia di accertamento della Sezione di controllo con cui era stata bloccata la spesa del Comune di Napoli, ossia la pronuncia n. 107/2018/PRSP. Sottolinea infatti la Corte «d’altra parte, questa Corte ha affermato più volte che, nei bilanci pubblici, le espressioni numeriche devono essere corredate da una stima attendibile, assicurata dalla coerenza con i presupposti economici e giuridici della loro quantificazione, sicché nel concetto di copertura giuridica operano in modo sinergico l’individuazione dei mezzi finanziari e della ragione giuridica sottesa al loro impiego (sentenze n. 227 del 2019 e n. 274 del 2017)». L’affermazione è parallela e speculare a quella secondo cui “copertura ed equilibrio sono […] facce della stessa medaglia” (sentenze nn. 192/2012, 184/2016 e 274/2017 e da ultimo la sentenza n. 197/2019)
Punto 3.3. Terzo versante. La Corte costituzionale prende una posizione precisa a fronte delle difese svolte dal Comune di Napoli, il quale ha sostenuto che le norme della cui costituzionalità di è discusso fossero norme ragionevoli e necessarie, per “soccorrere” gli enti in difficoltà finanziaria strutturale.
La Corte, da un lato, ha sottolineato e distinto che una cosa è la minore “capacità fiscale” di un territorio, altro è il disavanzo che proviene di inadeguatezze organizzative (in relazione alla capacità di riscuotere la base imponibile del territorio che ha di partenza una minore capacità contributiva).
L’anticipazione straordinaria di liquidità (ossia un indebitamento di lungo periodo per spesa corrente) non elimina, ma anzi favorisce il mantenimento dello squilibrio strutturale causato da carenze organizzative, poiché ha un effetto anestetico sia sul sintomo (lo squilibrio) che sulla malattia (la velleità del sistema fiscale sul territorio). In proposito osserva che «Il primo comma [dell’art 119 Cost.] precisa che l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa deve essere esercitata nel rispetto dell’equilibrio del bilancio e che gli enti territoriali devono contribuire, insieme agli altri enti della finanza allargata, all’osservanza dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea. In tale prospettiva, l’equilibrio individuale dei singoli enti è un presupposto della sana gestione finanziaria e del corretto esercizio dell’autonomia, nonché del dovere di concorrere a realizzare gli obiettivi macroeconomici nazionali e dell’Unione europea.
Ne consegue che tutte le disfunzioni – a cominciare da quelle censurate in questa sede – devono essere rimosse e non possono essere computate nell’attivazione dei meccanismi di solidarietà previsti dal terzo, quarto e quinto comma dell’art. 119 Cost».
Tuttavia la difesa svolta ha stimolato una serie di considerazioni che attengono all’insussistenza di una disciplina della crisi finanziaria strutturale degli enti territoriali (enti locali, ma anche le Regini, con riguardo al debito sanitario) in cui lo Stato provveda “prioritariamente” ad effettuare una spesa costituzionalmente necessaria, attinente alla perequazione delle capacità fiscali mediante trasferimenti all’uopo erogati, in funzione dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, comma 2, lett. m) Cost.).
Si tratta di un richiamo forte allo Stato e al suo ruolo di “custode della finanza pubblica allargata” (C. cost. sent. n. 107/2016), che collega la garanzia dei “diritti incomprimibili” (sent. n. 275/2016) erogati secondo il principio di sussidiarietà (art. 118 Cost.) alle risorse effettivamente disponibili, ma allo stesso tempo stabilisce una gerarchia tra le scelte effettuabili tramite il bilancio, inteso come “bene pubblico” (C. cost. sent. n. 184/2016).
Infatti, i limiti costituzionale e la garanzia dei “diritti incomprimibili”, laddove presuppongano “spesa costituzionalmente necessaria” si “riduce” (ma non è poco) al rispetto alcuni limiti che integrano il test di ragionevolezza delle scelte allocative compiute con il bilancio: non solo il principio di proporzione tra funzioni attribuite e risorse (sent. n. 10/2016) ma anche il criterio di “priorità della spesa pubblica” (sent. n. 6/2019 e 266/2013); in buona sostanza, dato il vincolo esterno di bilancio, determinato dalle capacità fiscali o dal sistema dei vincoli dell’Unione europea, lo Stato deve distribuire le risorse drenate con il proprio debito, i tributi e i proventi del proprio bilancio (ossia le c.d. “risorse disponibili”), dando “priorità” ad alcune spese che sono “costituzionalmente necessarie”: all’elenco dei LEP (sent. n. 169/2017 e n. 117/2018) si aggiunge quello degli enti che si trovano in uno stato di squilibrio strutturale che, in quanto tale, sono esposti al rischio di non garantire gli stessi LEP.
In proposito la Corte afferma: «Le risorse necessariamente stanziate per tali finalità – proprio in virtù dei superiori precetti costituzionali – devono essere prioritariamente destinate dallo Stato alle situazioni di accertato squilibrio strutturale dei bilanci degli enti locali». Ciò, peraltro, con una precisazione: il soccorso prioritario deve colmare il gap socio-economico e non dare supplenza, con anticipazioni di liquidità, alle “patologie organizzative”.
In definitiva, se il bilancio è «un “bene pubblico” nel senso che è funzionale a sintetizzare e rendere certe le scelte dell’ente territoriale, sia in ordine all’acquisizione delle entrate, sia alla individuazione degli interventi attuativi delle politiche pubbliche» (sent. n. 184/2016) “onere inderogabile” per lo Stato (sent. n. 4/2020) e poi per l’ente territoriale (sent. n. 6/2019) è fare queste scelte rispettando il criterio di priorità per quelle spese che sono definibili “costituzionalmente necessarie”, che per lo Stato si traduce in una adeguata politica di trasferimenti, rispettosa dell’art. 119 Cost.
In questo modo la Corte costituzionale traccia un filo diretto tra l’affermazione che esistono diritti incomprimibili che condizionano il bilancio (sent. n. 275/2016) e il processo allocativo che si basa spesso su finanza di trasferimento.
La sentenza quindi traccia un vero e proprio ordito di doveri costituzionali e pone ordine nelle relazioni finanziarie tra Stato e Regioni, cui i poteri dello Repubblica devono adempiere secondo l’antico brocardo del suum cuique tribuere.
L’ordito viene così sinteticamente tratteggiato: “un esame complessivo dei parametri costituzionali vigenti in subiecta materia consente di chiarire che: a) l’equilibrio dei conti è un presupposto della sana gestione finanziaria, del buon andamento e della corretta e ponderata programmazione delle politiche pubbliche (artt. 81 e 97 Cost.); b) in tale prospettiva i deficit causati da inappropriate gestioni devono essere recuperati in tempi ragionevoli e nel rispetto del principio di responsabilità, secondo cui ciascun amministratore democraticamente eletto deve rispondere del proprio operato agli amministrati» (enfasi aggiunta).
Per tale ragione, la Corte sente il bisogno di aggiornare la sua giurisprudenza sul contenuto costituzionalmente necessario della legge di rendiconto (e del rendiconto in generale come strumento di accountability pubblica).
Punto 3.4. Quarto versante. Ed infatti, sul finale del punto 5 dei considerato in diritto, la Corte precisa: «la legge di approvazione del rendiconto – indipendentemente dalla compilazione e redazione dei complessi allegati al bilanci previsti dal d.lgs. n. 118 del 2011 – deve contenere, in coerenza con le risultanze di detti allegati, cinque elementi fondamentali: a) il risultato di amministrazione espresso secondo l’art. 42 del decreto in questione; b) il risultato della gestione annuale inerente al rendiconto; c) lo stato dell’indebitamento e delle eventuali passività dell’ente applicate agli esercizi futuri» (sentenza n. 49 del 2018) poiché la trasparenza dei conti risulta «elemento indefettibile per avvicinare in senso democratico i cittadini all’attività dell’Amministrazione, in quanto consente di valutare in modo obiettivo e informato lo svolgimento del mandato elettorale, e per responsabilizzare gli amministratori» (sentenza n. 49 del 2018); d) quando le risorse proprie non consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite deve essere lo Stato ad intervenire con apposito fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante e con ulteriori risorse aggiuntive ai fini di promozione dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni (art. 119, terzo, quarto e quinto comma, Cost.); e) gli enti territoriali possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento, con modalità equilibrate in rapporto al generale contesto macroeconomico (art. 119, sesto comma, Cost.).» (enfasi aggiunta).
Se i primi tre elementi fondamentali erano già stati precisati nel precedente citato dalla Corte Costituzionale (sent. n. 49/2018), la Corte medesima, nella sentenza in riferimento, da un lato, ne ribadisce la ratio (ossia il principio di accountability) e dall’altro provvede ad aggiungere due nuovi elementi, i punti d) ed e) che appunto costituiscono una sorta di test antielusivo dei doveri costituzionali sopra delineati.
Queste precisazioni si appalesano di grande importanza, perché si prestano a diventare una chiave di interpretazione conforme dell’art. 63 del D.lgs. n. 118/2011, che è la disposizione che declina il contenuto di dettaglio del c.d. “rendiconto generale”, oggetto di parificazione da parte delle Sezioni regionali di controllo ai sensi dell’art. 1, comma 5, del DL. n. 174/2012 (conv. L. n. 213/2012).
In altre parole, al di là dei contenuti di legge, il rendiconto delle Regioni non può non “dare conto” delle risorse che derivano dai “fondi perequativi” e del modo in cui la Regione e l’ente locale li hanno impiegati, nell’esercizio della loro autonomia, in funzione dell’erogazione dei LEP e dello svolgimento delle funzioni essenziali.
Gli scenari che si aprono per il futuro sono dunque assai interessanti, specie con riguardo alle parifiche dei rendiconti regionali che la Corte dei conti dovrà in futuro effettuare.
Da un lato, per quanto concerne il debito sanitario – che è, in media, l’80% della spesa regionale e che pure fa parte del bilancio sanitario consolidato – non è accettabile che il rendiconto non dia un’informazione puntuale del debito sanitario allocato, tramite spesa di trasferimento, nelle varie aziende che fanno parte del sistema sanitario regionale.
Per conoscere l’ “esposizione” effettiva della Regione in termini di debiti “privi copertura” che nel tempo essa non potrà non ripianare , occorre integrare le informazioni disponibili nei prospetti e nelle varie articolazioni del “rendiconto generale” (art. 63 del D.lgs. n. 118/2011) con quelle del bilancio consolidato della sanità (art. 32 del D.lgs. n. 118/2011), che però non fa parte del rendiconto generale (ed ha un termine diverso di approvazione).
Il bilancio sanitario consolidato, infatti, esprime il dato complessivo dell’eventuale “debito” esternalizzato al sistema delle aziende regionali e che dovrebbe andare ad aggiungersi al debito espresso attraverso il risultato di amministrazione e i saldi sull’indebitamento (sul tema cfr. SRC Campania decisione n. 217/2019/PARI, Allegato A, punti 7 e ss.).
Per altro verso, se i rendiconti devono dare conto di quanti e quali mutui sono destinati a spesa d’investimento e quanti no, si porranno seri dubbi di costituzionalità per le spese che sono collegate a piani di rientro, essi stessi incostituzionali, nella misura in cui si basano sui mutui contratti dalle Regioni per coprire il debito sanitario pregresso.
Tali mutui sono presenti nella contabilità finanziaria delle Regioni che hanno sostenuto gravosi piani di rientro e che pagano annualmente cospicue spese di ammortamento a favore dei vari erogatori del finanziamento, ora la Cassa depositi e prestiti, ora le banche, ora il mercato (nel caso delle cartolarizzazioni o di emissioni di obbligazioni).
La Corte precisa anche che il rendiconto, in generale, ma soprattutto quanto accerta un disavanzo ha un “effetto certativo” (punto 4.2. considerato in diritto), che è un effetto giuridico e sostanziale. Si conferma perciò «L’efficacia di diritto sostanziale che il rendiconto riveste in riferimento ai risultati dai quali scaturisce la gestione finanziaria successiva» già evidenziata nella sentenza n. 274/2017. Detto in altri termini, tutto il bilancio, nelle sue fasi di previsione e rendicontazione, ha natura sostanziale, evidenziando la coerenza della natura con la sua struttura di “ciclo”.Si rileva dunque, anche su tale aspetto, un allineamento tra giurisprudenza contabile e quella costituzionale (v., in particolare, Sezioni riunite in speciale composizione, sentenza n. 23/2019/EL, laddove si è precisato precisano che il bilancio non è un atto né soltanto un’attività, ma un “ciclo”).
Punto 3.5. Una simile considerazione apre al commento che attiene al “quinto versante”: la Corte ha infatti ritenuto necessario soffermarsi sugli effetti della pronuncia sui bilanci in corso, in considerazione della natura e struttura del bilancio. Tale precisazione è ad evidente servizio del giudice a quo, chiamato ad applicare i principi enunciati con la sola soggezione alla legge e alla Costituzione, una volta stabiliti i limiti della nomofilachia in sede di controllo (clicca qui).
Fermo restando l’effetto retroattivo della pronuncia ai sensi dell’art. 136 della Cost. e dell’art. 30 della Legge n. 87/1953, la Corte evidenzia che «si è in presenza di una graduazione “naturale” degli effetti temporali della presente sentenza sulla gestione del bilancio comunale e sulle situazioni giuridiche a essa sottese» (enfasi aggiunta).
La conseguenza è che il disavanzo va riqualificato, ai fini dell’effetto prescrittivo sugli esercizi successivi.
Ad ogni disavanzo, per altro verso, si applica la legge vigente al momento in cui si è generato (tempus regit actum). Come è stato sostenuto dalla Sezione Campana nella decisione n. 110/2018/PARI, All. A, § 3.6.2), le norme che disciplinano la rappresentazione contabile seguono la ciclicità del bilancio e sono quelle vigenti relative alla data del fatto rappresentato. Le leggi del ripiano, parallelamente, sono quelle vigenti al momento della rendicontazione. Sicché una volta rappresentato un fatto secondo la tecnica vigente al tempo, la regola del ripiano (che attiene al bilancio di previsione) deve essere quella corrispondente e vigente per il tipo di fatto rappresentato e al collegato disavanzo (salva diversa e successiva disposizione di legge).
Ora, è del tutto evidente che per effetto della abrogazione retroattiva dell’art. 2, comma 6, del D.L. n. 78/2015, il FAL deve essere ripristinato nella contabilità dell’ente sul cui bilancio il giudice a quo è chiamato a giudicare.
Il FAL è un istituto costituito il 1° gennaio 2015, con il passaggio alla nuova contabilità armonizzata (in termini riepilogativi cfr. SRC Campania pronuncia di accertamento n. 228/2015/PRSP, § 2 e ss.). Il fondo concorre alla determinazione del “maggiore disavanzo” (art. 4 d.m. MEF 2 aprile 2015) che si è formato in quell’occasione e per cui il Legislatore ha previsto il ripiano trentennale ai sensi dell’art. 3 comma 16 del D.lgs. n. 118/2011.
Tale regola di ripiano è stata dettata in ragione del carattere straordinario del disavanzo che può emergere per effetto della trasformazione del vecchio risultato di amministrazione nel “nuovo” risultato di amministrazione armonizzato (sul punto cfr. la prima pronuncia di accertamento SRC Campania n. 240/2017/PRSP sul caso Napoli, presupposta dalla citata decisione. n. 107/2018/PRSP).
Anche qui la giurisprudenza costituzionale appare allineata con la giurisprudenza contabile sulla c.d. “riedizione” del riaccertamento straordinario in caso di irregolarità “non altrimenti rimediabili” (cfr. SRC Campania pronuncia di accertamento n. 267/2017/PRSP).
Per tutti i disavanzi nuovi, via via emersi per difetto di copertura (anche a causa di quello dissimulato dalla norma impugnata nel corso della sua applicazione), si applica invece la legge di ripiano in cui essi si manifestano, secondo la regola generale dell’art. 188 TUEL.
III. Conclusioni. La rassegna dei principi velocemente ripercorsi e gli accenni agli stimoli di riflessione che essi sollevano sul futuro, consente di affermare che la sentenza costituisce una vera mappatura dello stato dei rapporti tra poteri dell’ordinamento: Stato, Regioni ed enti locali, ma anche relazione tra giudici e tra questi e l’amministrazione sono rigorosamente tracciati nell’ambito di un iudicium finium regundorum di doveri e di munera, tramite il prisma del bilancio, all’interno del quale deve realizzarsi il bilanciamento ragionevole delle risorse, alla base del comune vivere repubblicano.
Sicché la Corte afferma che «Il sistema così sinteticamente delineato serve per attribuire “a ciascuno il suo” in termini di responsabilità di gestione, affiancando all’operato del breve periodo la situazione aggiornata degli effetti delle amministrazioni pregresse» (punto 5, Cons. in diritto, enfasi aggiunta).
In un sistema che in passato non ha mancato di “abusare del tecnicismo contabile” (sent. n. 247/2017, punto 10 cons. in diritto) e ha mostrato di non avere chiarezza della distinzione sostanziale che sussiste tra le varie forme di controllo, il suum cuique tribuere risuona pirandellianamente il quel “a ciascuno il suo” con cui la Corte richiama la Comunità repubblicana al rispetto del senso solidaristico della Costituzione finanziaria e con essa al rispetto dei principi di legalità e di separazione dei poteri.