E nel caso delle società in house richiede un test approfondito di “sostenibilità finanziaria” oltre alla dimostrazione del “fallimento del mercato”
Nota redazionale su Sez. reg. controllo Lazio n. 59/2023/PASP
Come è noto, l’art. 5, c 3 del d.lgs 175/2016 (testo unico società partecipate, TUSP), così come modificato dall’ art. 11 comma 1, lett. a), della legge 5 agosto 2022, n. 118 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021) ha attribuito alla Corte dei conti il compito di emanare un “parere” in materia di acquisto di partecipazioni o costituzione di società partecipate da amministrazioni pubbliche (come definite dall’art. 2, c. 1, lett. a) TUSP)[1].
Ove la Corte dei conti non adotti alcuna decisione entro il termine previsto, l’amministrazione può procedere alla costituzione della società o all’acquisto della partecipazione. Parimenti, laddove la Corte si pronunci con un parere in tutto o in parte negativo, l’amministrazione interessata può procedere ma, in questo caso, viene espressamente richiesta dal c. 4 dell’art. 5 una motivazione rafforzata che espliciti analiticamente le ragioni per le quali l’ente intende discostarsi dal parere.
L’importanza della pronuncia dei Giudici contabili laziali si coglie con riferimento ad alcuni concetti basilari della teoria generale del diritto, con particolare riferimento alla dottrina di diritto amministrativo, nonché con riguardo ai fondamentali principi costituzionali in materia di bilancio.
In particolare, il parere reso dalla Sezione regionale di controllo Lazio chiarisce che:
- al di là del nomen utilizzato dal legislatore, il giudizio ai sensi dell’art. 5, c. 3, Tusp, è un controllo successivo di legittimità-regolarità che si inserisce tra la fase pubblicistica e quella privatistica che caratterizza le funzioni amministrative svolte secondo moduli di diritto privato, ai sensi dell’art. 1 della l. n. 241/1990 e mira a riscontrare la conformità a legge di un atto già efficace, capace di produrre un vincolo sull’amministrazione. Un controllo dotato di un “effetto impeditivo” in senso lato (di tipo procedurale) che, ai sensi dell’art. 20 della l. n. 243/2012, affianca i controlli già previsti sul bilancio dell’ente dominus (art. 148-bis del Tuel), i controlli-referto per le deliberazioni di razionalizzazione (art. 20 del Tusp, e i piani di risanamento (art. 14, comma 5, in combinato disposto con i commi 2 e 3 Tusp)[2].Detto in altri termini, l’ “effetto impeditivo” è il discrimen teorico e pratico tra attiva meramente consultiva e attività di controllo;
- così riqualificato il contenuto sostanziale del parere, il nuovo controllo si inquadra pienamente nelle attribuzioni di cui all’art. 100 Cost., come attività di verifica degli andamenti della finanza pubblica (art. 5, comma 1, lett. a) l. cost. n. 1/2012). Più nel dettaglio, mira a garantire il rispetto diffuso dell’equilibrio di bilancio che richiede che la partecipazione o la costituzione di società sia conforme al criterio della sostenibilità finanziaria e che non determini un aumento della spesa (efficienza ed economicità) né appaia irragionevole rispetto agli obiettivi (efficacia) da perseguire. La Corte, pertanto, ritrova il fondamento del nuovo compito nella esigenza di far rispettare i limiti che la legge pone in presenza di eccezioni al principio di universalità, quale corollario del principio costituzionale di equilibrio e democraticità di bilancio. In secondo luogo, il Giudice laziale associa il criterio “sostenibilità finanziaria” alla regola costituzionale, dell’art. 97 comma 1 Cost., come novellato nel 2012. Allo scopo di verificare tali limiti, pertanto, la Corte deve effettuare una doppia verifica di legalità, sul piano dell’oggetto e su quello degli effetti. In primo luogo, l’oggetto sociale della società target deve corrispondere a una delle attività elencate all’art. 4, comma 2, del Tusp (legalità dell’oggetto). Sul piano degli effetti, l’acquisto partecipativo non deve contrastare: a) con la normativa dell’Unione europea (specialmente in materia di aiuti di Stato, art. 5, comma 2, Tusp), nonché, b) con il principio di inerenza e di necessità alle finalità istituzionali dell’ente dominus; infine, c) la partecipazione non deve comportare un deterioramento dell’equilibrio di bilancio e una violazione del correlato precetto di copertura;
- la necessità della costituzione dell’organismo in house richiede la dimostrazione del “fallimento del mercato”. La Corte perviene a questo risultato ritenendo che il criterio della sostenibilità, per il richiamo contenuto nell’art. 4 comma 4 del TUSP[3], comporti altresì una verifica alla luce del “parametro interposto” dell’art. 192 del codice dei contratti pubblici. La consolidata giurisprudenza amministrativa, in merito a tale disposizione, sottolinea come il ricorso all’in house presuppone il riscontro di due condizioni: a) la dimostrata incapacità del mercato di offrire il servizio de quo alle medesime condizioni qualitative, economiche, di accessibilità, garantite dal gestore oggetto del controllo analogo (fallimento del mercato); b) la sussistenza di specifici benefici per la collettività derivanti dall’affidamento diretto in house, come già detto, concretamente dimostrati. In accordo con la costante giurisprudenza amministrativa, la Sezione conclude nel senso che per necessità non si intende indispensabilità (necessità assoluta) ma una necessità relativa, nel senso di dimostrabile e dimostrata maggiore idoneità della partecipazione ad assolvere al compito pubblicistico di fornire un servizio di interesse generale in modo qualitativamente più adeguato e a condizioni economiche più favorevoli rispetto all’ordinaria modalità esternalizzatrice;
- nella fattispecie prevista dall’art. 5, comma 3, del Tusp, l’effetto impeditivo opera automaticamente (art. 5, comma 4, Tusp), come conseguenza diretta del parere negativo o parzialmente negativo con cui viene riscontrata la non conformità della deliberazione alle prescrizioni contenute negli artt. 4, 5, 7 e 8 del Tusp. Da tale accertamento negativo, segnatamente, consegue l’obbligo dell’ente di adottare una nuova deliberazione, con una motivazione analitica e rinforzata, anche a mero scopo confermativo. “Tanto discende”, conclude il collegio laziale, “dai principi generali dell’ordinamento sull’autotutela vincolata (per il caso di “illegittimità dell’atto dichiarata da un’autorità di controllo priva del potere di annullamento”) nonché per implicito, dall’art. 5, comma 3, del Tusp che consente alla pubblica amministrazione di procedere in caso di mancata emissione del parere nel termine di legge, ponendo un obbligo di standstill, funzionale all’autotutela, in caso di parere negativo o parzialmente negativo.
[1] Più in particolare, il novellato art. 5, c. 3 del d.lgs. n. 175/2016, prevede che l’atto deliberativo di costituzione di una società o di acquisizione di una partecipazione (sia diretta che indiretta) sia trasmesso dall’amministrazione pubblica procedente all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che può esercitare i poteri attribuiti dall’articolo 21-bis della legge 10 ottobre 1990, n. 287, e alla Corte dei conti, che deve deliberare, entro il termine di sessanta giorni dal ricevimento, in ordine alla conformità dell’atto a quanto disposto dai commi 1 e 2 del medesimo art. 5, nonché dagli artt. 4, 7 e 8, con particolare riguardo alla sostenibilità finanziaria e alla compatibilità della scelta con i princìpi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa.
[2] La qualificazione si avvale degli approdi della più moderna dottrina sui controlli-garanzia, in particolare delle riflessioni di Serio Galeotti, cfr. S. Galeotti, Introduzione alla teoria dei controlli costituzionali, Milano, 1963, passim; Id. La garanzia costituzionale (presupposti concetto), Milano, 1950 passim. Una efficace sintesi di tali concetti si ritrova in M. Luciani, Un giroscopio costituzionale. Il Presidente della Repubblica dal mito alla realtà̀ (passando per il testo della costituzione, in Rivista AIC, n. 2/2017.
[3] Il Collegio afferma lapidariamente che “il ricorso all’intermediazione di una società in house per l’autoproduzione e l’erogazione di beni e servizi, anche strumentali, resta circondato da un chiaro sfavore ordinamentale, come risulta dall’art. 4, comma 4, del Tusp e dall’art. 192 del d.lgs. n. 50/2016 (richiamato, a sua volta, dall’art. 16, comma 7, Tusp), norme che dispongono limiti precisi alla costituzione e affidamento diretto di beni e servizi a tali soggetti. Tale approccio resta confermato dall’art. 17 del d.lgs. n. 201/2022, il quale ha ribadito che gli “enti locali e gli altri competenti possono affidare i servizi di interesse economico generale di livello locale a società in house, nei limiti e secondo le modalità di cui alla disciplina in materia di contratti pubblici e di cui al d.lgs. n. 175 del 2016”.