IL DISAVANZO DI UN ENTE LOCALE: SINTESI DELLA GIURISPRUDENZA CONTABILE E COSTITUZIONALE

Il disavanzo registrato nel rendiconto di un ente locale costituisce una voce di spesa indifferenziata, ossia senza possibilità di distinguere se esso deriva da spesa corrente o in conto capitale. Il disavanzo comporta per l’ente la necessità di reperire risorse a copertura dello stesso (Corte dei conti, Sezioni Riunite spec. comp., sentenza n. 4 del 2023).

Come chiarito dal giudice contabile, il disavanzo d’amministrazione esprime un deficit di risorse disponibili rispetto alla spesa effettuata, certificando la mancanza di risorse a copertura delle passività registrate in bilancio. Tale saldo, perciò, può assimilarsi ad un debito che l’ente ha verso sé stesso, causato dall’aver sostenuto spese maggiori rispetto alle entrate. Per riportare la gestione in equilibrio, l’ente deve eliminare questa passività, reperendo risorse reali ed effettive (Corte dei conti, Sezioni riunite spec. comp., sentenza 1 del 2019).

In linea di massima il disavanzo dovrebbe essere recuperato nell’arco dell’esercizio successivo, e in ogni caso in un tempo compatibile con il mandato elettorale (per gli enti locali, infatti, l’obbligo di copertura è triennale).

Le norme che autorizzano il rientro in un arco temporale che supera il normale ciclo di bilancio devono essere valutate, per gli enti locali, in relazione al disposto dell’art. 119, co. 6, Cost e l’art. 5, co. 1, lett. g) l. cost. 1/2012. Infatti,  il disavanzo è un saldo indifferenziato, specificamente non riferibile né ad investimenti né alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni, la cui copertura viene individuata in una dilazione temporale unilaterale per la restituzione del capitale finanziario ai creditori; è quindi necessario che questa dilazione sia limitata nel tempo e che le norme che la prevedano abbiano una applicazione particolarmente stringente per essere compatibili con il principio costituzionale dell’art. 119, comma 6.

Sul punto si è espressa anche la Corte costituzionale affermando che la disciplina della crisi strutturale degli enti pubblici deve assicurare la certezza dei tempi di recupero, sia con riguardo alle pretese dei creditori (C. cost. sent. n. 219/2022 e Corte di giustizia Edu, sentenze De Luca c. Italia nonché Pennino c. Italia, entrambe del 24 settembre 2013), ma anche rispetto agli elettori, verso i quali deve essere garantita una adeguata contabilità di mandato, anche a tutela delle generazioni future (Corte dei conti, sentenza n. 4 del 2023)

La giurisprudenza costituzionale ha evidenziato la problematicità di soluzioni normative che consentono il riassorbimento dei disavanzi in archi temporali molto ampi, ben oltre l’orizzonte del mandato elettorale (cfr. sentt. n. 279/2016, n. 6/2017 e n. 107/2016, sent. n. 274/2017 e n. 18/2019), fatta salva l’esigenza, straordinaria, di garantire la continuità di funzionamento dell’ente e la certezza del diritto. Fermo è l’ammonimento del Giudice delle leggi circa l’intrinseca pericolosità di «soluzioni che trasformino il rientro dal deficit e dal debito in una deroga permanente e progressiva al principio dell’equilibrio del bilancio […]. La tendenza a perpetuare il deficit strutturale nel tempo, attraverso uno stillicidio normativo di rinvii, finisce per paralizzare qualsiasi ragionevole progetto di risanamento, in tal modo entrando in collisione sia con il principio di equità intragenerazionale che intergenerazionale» (Corte cost. sentenza 115 del 2020).

La Corte ha poi avvalorato la propria tesi richiamando il principio per cui il bilancio consuntivo dell’ente deve essere caratterizzato dalla rappresentazione di “un solo risultato di amministrazione, il quale deriva dalla sommatoria delle situazioni giuridiche e contabili degli esercizi precedenti fino a determinare un esito che può essere positivo o negativo. Consentire di avere più disavanzi significa, in pratica, permettere di tenere più bilanci consuntivi in perdita”. È sancito, dunque, il divieto di meccanismi di manipolazione del deficit che consentano, come già la norma dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 18 del 2019, di sottostimare, attraverso la strumentale tenuta di più disavanzi, l’accantonamento annuale finalizzato al risanamento e, conseguentemente, di peggiorare, anziché migliorare, nel tempo del preteso riequilibrio, il risultato di amministrazione. Le norme che autorizzano gli enti locali a tenere separati disavanzi di amministrazione ai fini del risanamento e a ricalcolare la quota di accantonamento, indipendentemente dall’entità complessiva del deficit, consentono la dilatazione della spesa corrente, con il conseguente progressivo aumento dell’entità del disavanzo effettivo, anche se non immediatamente rilevabile attesa la compresenza nel bilancio dell’ente di una pluralità di disavanzi soggetti a regole diverse.

È evidente che per qualsiasi deroga all’immediato rientro che consenta di allargare l’entità del disavanzo anziché ridurlo – all’ente territoriale di “vivere ultra vires” comporta l’aggravio del deficit strutturale, anziché il suo risanamento. Perciò ogni periodo di durata superiore comporta il sospetto di potenziale dissesto e può essere giustificato solo se il meccanismo normativo che lo prevede sia effettivamente finalizzato al riequilibrio, dimodoché «l’istruttoria relativa alle ipotesi di risanamento deve essere congrua e coerente sotto il profilo storico, economico e giuridico» (sentenza n. 18 del 2019).

Inoltre, le norme sulla ripianabilità dei disavanzi in un tempo superiore alla durata del bilancio, dal punto di vista della disciplina europea, costituiscono una forma di indebitamento. Tali norme, infatti, incidono unilateralmente sul tempo di copertura e pagamento dei crediti commerciali, lasciando il capitale finanziario nella disponibilità della pubblica amministrazione. Si tratta perciò di una forma di prestito forzoso (cfr. Reg. Ue n. 549/2013, Allegato A, § 20.132) che la pubblica amministrazione può imporre al mercato, sulla base di proprie scelte unilaterali. Per la stessa ragione, in sede europea, è stata emanata una stringente disciplina contro i ritardi nei pagamenti delle pubbliche amministrazioni, recepita con il d.lgs. n. 231/2002.

La sezione regionale di controllo per il Lazio, con la Pronuncia 108 del 2021 (concernente il Piano di riequilibrio finanziario del Comune di Frascati) ha stabilito che “La possibilità di considerare tale disavanzo (o qualsiasi quota di disavanzo soggetta ad una disciplina eccezionale di legge) oggetto di ulteriori manovre che possono diversamente modulare o allungare i tempi di rientro, è preclusa da basilari principi di sistema. Come è stato evidenziato da SS.RR. spec. comp. n. 1/2019/EL e SRC Campania n. 110/2018/PARI, non è possibile fare scorrere i disavanzi già oggetto di una disciplina di ripiano eccezionale dentro una diversa ed ulteriore eccezione di legge, salvo lo consenta espressamente il legislatore (e sempreché tale norma sia costituzionale). Infatti, consentire il ripiano di un disavanzo che viene già recuperato in deroga all’art. 42 del D.lgs. n. 118/2011 o dell’art. 188 TUEL significa rompere il principio della responsabilità di mandato e di fatto vanificare l’equilibrio di bilancio. L’inclusione di tale disavanzo (o di quote dello stesso non recuperate) nel PRFP produce l’effetto di procrastinare il ripiano di un disavanzo, proiettando avanti nel tempo e concentrando le risorse sul ripiano di altri squilibri, comunque non nella misura richiesta dalla legge. L’impossibilità di procedere in modo siffatto, sulla base dei principi generali qui evocati, è confermata da una recente norma eccezionale, introdotta dalla legislazione di emergenza, in deroga a tali principi (l’art. 111, comma 4-bis, del D.L. n. 18/2020). Tale norma consente solo di diminuire l’obbligo di recupero, in presenza di un piano di rientro e alle sue regole, solo se l’ente è nella virtuosa circostanza di averlo eseguito con successo e con anticipo (c.d. overshooting), non in caso contrario (c.d undershooting).

Si soggiunge che l’incapacità di recuperare il disavanzo, con un piano di rientro di diritto eccezionale, e altamente vantaggioso (nel caso dell’art. 3 comma 16 del D.lgs. n. 118/2011 addirittura trentennale) per contro, è evidenza dell’incapacità dell’ente di predisporre adeguati piani di riduzione. Pertanto, gli enti in extra-deficit devono necessariamente farsi carico delle quote non recuperate secondo la disciplina dell’art. 4 del d.m. 2 aprile 2015, senza potere modificare tale disciplina tramite un proprio atto amministrativo generale, quale è il PRFP.

Aggiunge la Sezione regionale di controllo, con deliberazione 62 del 2022 (Piano di riequilibrio del Comune di Ceccano) che “In questo senso, sul piano della quantificazione della massa passiva, si rileva come l’Ente abbia tenuto conto dell’orientamento recentemente espresso dalla Sezione (cfr. deliberazione n. 108/2021/PRSP) in ordine alla necessità di scongiurare l’inclusione, ai soli fini della determinazione della durata del piano ex art. 243 bis, comma 5 bis Tuel, di quote di disavanzo già soggette ad una disciplina eccezionale di rientro agevolato al fine di dilatare i tempi del risanamento finanziario, compromettendo l’effettività dei principi di responsabilità di mandato ed equilibrio dinamico del bilancio”.

Nell’ambito di un unico complessivo concetto di disavanzo, quindi, norme di recupero e copertura derogatorie non possono mai avere l’effetto di sommarsi a vantaggio dell’ente (e a detrimento dei diritti del creditori), ma devono essere applicate in modo stringente così da evitare effetti di espansione (temporale o quantitativa) del complessivo disavanzo maturato ad una certa data.

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