EDITORIALE n.2

Prof. Massimo Luciani

1.- Quasi mai il problema di una nuova iniziativa editoriale è l’esordio. Quasi mai lo è il primo volume di una collana; quasi mai lo è il numero zero (o uno) di una rivista. Le difficoltà, in genere, si manifestano dopo, quando si tratta di proseguire lungo la strada intrapresa e cominciano a venire al pettine tutti i nodi che all’inizio dell’avventura erano rimasti nascosti. Bene: Bilancio – Comunità – Persona, giunta al fatidico secondo numero, di quelle difficoltà non mostra affatto i segni.

Il merito è indubbiamente della direzione, del comitato scientifico, della redazione, degli autori, di tutti coloro che si sono impegnati nel viaggio, ma è anche dei fatti. È dell’oggettività delle cose. La Rivista, a me sembra, copre un campo di acuta sofferenza politica, sociale e istituzionale, cogliendo appieno un bisogno culturale profondo e soddisfacendo la necessità di alimentare una riflessione comune sui complessi intrecci che uniscono il tema delle risorse e quello dei diritti; il dominio delle condizioni della decisione pubblica e quello della nuda vita delle persone. Il suo stesso titolo la dice lunga sul progetto che le sta alla base.

2.- Ora, questo secondo numero fa emergere con chiarezza la volontà di far uscire la discussione sul bilancio, sulla finanza, sulla contabilità, dalle secche dell’autoreferenzialità, per proiettarlo in una dimensione più ampia, che non esito a definire costituzionale nel senso più pregnante del termine. Non mi sembra un caso che uno dei saggi-chiave del numero si debba alla penna di uno studioso come Luca Antonini, sempre attento a questi temi e oggi – appunto – giudice costituzionale. Né mi sembra che sia un caso il suo titolo (Il ruolo, da riscoprire in chiave “umanistica”, della Corte dei conti nello sviluppo costituzionale italiano), che evoca proprio la grande questione del rapporto fra risorse e diritti che giace, quasi esplicitamente, sotto l’intitolazione della Rivista. “La cruda realtà del condizionamento delle risorse finanziarie sui diritti costituzionali”, per dirla sempre con Antonini, impone agli studiosi dei diritti di fare quel che raramente hanno voluto fare: indagare la realtà economico-finanziaria; interrogarsi sui rapporti sociali di forza; comprendere quei meccanismi dell’entrata e della spesa pubblica dai quali l’esperienza dei diritti è profondamente incisa.

Da molti anni insisto su un dato che mi sembra ovvio (ma che sembra emerso solo da poco alla comune consapevolezza): tutti i diritti, nessuno escluso, costano, non solo in termini di relazione con gli altri diritti e con le situazioni soggettive passive di chi deve rispettarli, ma anche, più trivialmente, in termini di risorse sociali da destinare al loro soddisfacimento. Se è così, non esiste alcuna frontiera fra le questioni che attengono alle scelte di bilancio (chi le compie; in che tempi e in che modi, con quali garanzie di trasparenza, sotto quali controlli, etc.) e quelle che riguardano i diritti. Specie i costituzionalisti, ancora oggi, quasi pensando che pecunia, anche se pubblica, olet, hanno rifuggito il duro discorso delle risorse, che è anche e soprattutto discorso di allocazione di potere, ma è bene che cambino rapidamente rotta.

3.- Vediamo, però, come la Rivista, in questo numero, ha affrontato alcuni dei nodi problematici che ho appena menzionato.

La questione di chi decide emerge con nettezza tanto nel già citato saggio di Luca Antonini che in quello di Guido Rivosecchi (L’autonomia finanziaria regionale e il regionalismo differenziato), toccando sia la classica questione del rapporto Parlamento-Governo (nel saggio di Antonini), sia quella dei livelli di governo (in entrambi gli scritti), anche qui nella consapevolezza che l’allocazione della decisione più in alto o più in basso ha consistenti e inevitabili conseguenze sui cittadini e sui loro diritti.

I tempi e i modi sono l’oggetto dello scritto di Eleonora Canale (Il (pericoloso) connubio “maxi-emendamento e questione di fiducia” incontra la legge di bilancio 2019 (a margine dell’Ordinanza della Corte costituzionale 17 del 2019), che mette in luce la vera e propria tenaglia che si stringe attorno alle assemblee rappresentative quando il Governo, invece di favorire la discussione parlamentare sulle scelte di bilancio, la soffoca per rimediare alle proprie difficoltà interne, riparandosi dietro l’usbergo di un connubio (fra maxiemendamento e questione di fiducia) che “rappresenta l’emblema dell’intrinseca debolezza che ha caratterizzato i governi insediatisi  a partire dall’entrata in vigore del sistema elettorale maggioritario”. Un’intrinseca debolezza, aggiungo, così conclamata che gli apprendisti stregoni i quali, nel corso degli anni, hanno promesso mari e monti grazie a qualche artificio istituzional-elettorale, dovrebbero finalmente fare ammenda, cospargendosi il capo di cenere e riconoscendo la fondatezza degli argomenti dei critici. Va da sé, però, che così non è e che di Zauberlehrlinge siamo ancora pieni: tant’è…

A Monica Bergo (Il coordinamento della finanza pubblica nella giurisprudenza costituzionale: verso l’umanizzazione dei precetti contabili) dobbiamo (fra l’altro) la considerazione del principio di trasparenza del bilancio proprio nella chiave di fondo che ispira tutto il numero della Rivista. Se la trasparenza è l’“imprescindibile trait d’union tra le politiche di bilancio, la responsabilità politica e l’accessibilità alle informazioni da parte della collettività”, mi pare, la relazione intima tra forma di governo e realtà dei diritti emerge con piana chiarezza. Anni addietro parlavo di una “Costituzione dei diritti” e di una “Costituzione dei poteri” per mettere in luce l’artificiosità della distinzione e lo stretto legame che le unisce, congiungendo indissolubilmente prima e seconda parte della Costituzione: anche nella prospettiva della trasparenza questo legame si manifesta a tutto tondo.

I controlli, infine. Intendendo il tema in senso ampio, lo troviamo presente in tutti gli altri saggi: da quello di Giovanna Colombini (Brevi riflessioni sul debito pubblico e giudice contabile) a quello di Fulvio Longavita (I nuovi connotati della funzione di controllo), da quello di Francesco Albo (L’attività di vigilanza politico amministrativa dell’organo consiliare nel riconoscimento dei debiti fuori bilancio) a quello di Laura D’Ambrosio (La responsabilità sanzionatoria dopo il nuovo codice di giustizia contabile). Qui emerge con pienezza il nuovo ruolo della Corte dei conti, che – a me sembra – sta vivendo una delle sue stagioni più complesse, ma anche più ricche e felici, spinta al centro del palcoscenico dall’oggettività dei processi sociali e istituzionali che hanno caratterizzato gli ultimi decenni. Se la vulgata vuole la Corte ostacolo dell’amministrazione, causa prima (o seconda, dopo le procure della Repubblica…) del “timore della firma”, spetta alla Corte stessa smentirla, senza rinunciare alla doverosa serietà del custode dei conti pubblici, ma abbracciando la prospettiva di una relazione collaborativa con l’amministrazione, di guida e di stimolo a dotarsi di buone pratiche, più che di sola repressione e sanzione (sempre fatalmente tardiva e quasi mai pienamente restauratrice del pubblico interesse).

Va da sé che un auspicabile sforzo della Corte dei conti in questo senso dovrebbe essere accompagnato anche da un intervento legislativo che lo favorisca, pure sul piano delle risorse (materiali e umane) da destinare al suo funzionamento. Staremo a vedere se ve ne saranno le condizioni e la capacità politica.

4.- In un recente convengo, tenutosi proprio in Corte dei conti, osservavo che la Corte dei conti e il Consiglio di Stato, vere e proprie cerniere fra il dominio del Governo-amministrazione e quello della magistratura, hanno la grande opportunità di dialogare con le altre istituzioni non solo attraverso gli strumenti della giurisdizione (come accade alla magistratura ordinaria), ma anche (rispettivamente) con l’attività di controllo e con quella consultiva. Osservavo anche che un controllo ben esercitato produce necessariamente dei significativi effetti di prevenzione, ma non soltanto perché funge da deterrente per possibili, successive, violazioni della legge. Quel che più conta, infatti, è che una precisa e ben pubblicizzata identificazione dei paradigmi del controllo è essenziale perché il decisore pubblico cui spettano le scelte di spesa applichi la legge correttamente. È dunque necessario che si attivi un duplice circuito virtuoso: tra funzione di controllo e funzione giurisdizionale; tra Corte dei conti nel suo complesso (nell’esercizio di entrambe le funzioni) e amministrazione. Nella Corte dei conti l’amministrazione, a me sembra, deve trovare anzitutto una guida, un’ancora di certezza: è anche in questo senso che, per riprendere la consolidata formula della giurisprudenza costituzionale, la Corte si qualifica come “organo dello Stato-ordinamento” o, se si preferisce, dello “Stato-comunità”.

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