DISSESTO COMUNALE E SANZIONI

Brevi note a margine del decreto n. 2/2021 della Sezione giurisdizionale per la Regione Abruzzo.

Il recentissimo decreto n. 2/2021 del giudice designato ex art. 133, comma 2, c.g.c., della Sezione giurisdizionale per la Regione Abruzzo si segnala in quanto affronta, in modo approfondito e con approccio sistematico, sia la ricostruzione dei presupposti per il riconoscimento della responsabilità per dissesto (prima parte della predetta disposizione), sia quello della applicazione della relativa sanzione pecuniaria (seconda parte della disposizione), oltre che interdittiva, nell’ambito del nuovo procedimento sanzionatorio di cui al citato art. 133 del codice di giustizia contabile. Come anche ribadito nella pronuncia in esame, non è necessario un autonomo accertamento con rito ordinario del concorso al dissesto finanziario dell’ente locale, ma per lo stesso principio di celerità, ovvero semplificazione del processo, può operarsi direttamente nell’ambito dello stesso procedimento sanzionatorio. Il rito previsto per le ipotesi di responsabilità sanzionatoria, così come disegnato dal codice di giustizia contabile, una volta instaurato, è certamente pensato per soddisfare esigenze di celerità: si impernia, infatti, su di un procedimento semplificato, regolato da termini determinati e incalzanti per giungere al deposito del decreto con il quale viene definito il processo.

Dal punto di vista processuale, la fattispecie in esame è stata introdotta con ricorso al giudice monocratico (non preceduta dalla notifica dell’invito a dedurre, come avviene, invece, nel rito ordinario) e discussa in udienza in camera di consiglio; la modifica disposta dal decreto legislativo 7 ottobre 2019, n. 119 (correttivo del codice di giustizia contabile) ha infatti risolto i pregressi dubbi, così novellando l’articolo 133 c.g.c.: “copia del ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza camerale, è notificata alla parte a cura del pubblico Ministero”; “il pubblico ministero deposita presso la segreteria della sezione il ricorso, unitamente ai documenti in esso richiamati, e il decreto di fissazione dell’udienza camerale, entro dieci giorni dalla notificazione dei medesimi”.

Giova preliminarmente ricordare che il rito sanzionatorio si articola in due fasi successive: la prima dinnanzi al giudice monocratico, che provvede in camera di consiglio con decreto motivato (che è proprio il caso di specie), senza svolgere attività istruttorie particolarmente complesse, entro sessanta giorni dal deposito del ricorso, con possibilità di definire la pendenza, in caso di applicazione della sanzione, mediante il pagamento in misura agevolata pari al 30% della somma; la seconda, eventuale, di opposizione dinanzi alla stessa Sezione giurisdizionale, stavolta in composizione collegiale, con fissazione d’udienza di discussione ed omissione di ogni formalità non essenziale al contraddittorio; si noti, infine, che la decisione di primo grado, nella forma della sentenza, è appellabile (a contrario, v. art. 144 c.g.c.). È di tutta evidenza come la prima fase sia connotata da una notevole snellezza della procedura, senza però rinunciare alla completezza dell’istruttoria, seppur limitata all’esame degli atti depositati dalle parti e alla comparizione delle parti medesime in camera di consiglio; in sede di (eventuale) opposizione, si apre peraltro la seconda fase dinnanzi al collegio, in cui è possibile procedere “ad una eventuale ulteriore attività istruttoria”. Anche la facoltà del pagamento della sanzione nella misura ridotta, pari al trenta per cento della somma, trova giustificazione non solo nell’immediatezza del pagamento, ma anche nell’acquiescenza, cioè nella rinuncia del “sanzionato” a spiegare opposizione e, quindi, a chiedere la cognizione piena della controversia: si tratta di una chiusura agevolata della pendenza, volta ad evitare per quanto possibile lo svolgimento di un processo a cognizione piena dinanzi al collegio giudicante. Coerentemente con la ratio normativa, puntualmente ricostruita nel decreto in commento, la decisione non è esecutiva in pendenza dei termini per l’opposizione (art. 134, comma 4, c.g.c.). Pertanto, la sommarietà della prima fase (giudice monocratico) non viene a comprimere il diritto di difesa, ma comporta un mero differimento del suo pieno dispiegarsi: la possibilità, con l’opposizione, di ottenere una pronuncia collegiale (seconda fase) e la ricorribilità in appello di quest’ultima garantiscono, infatti, il diritto alla difesa di cui all’art. 24 della Costituzione.

Nel merito, uno dei temi centrali affrontati nel decreto risiede nell’esame dei limiti del sindacato esercitabile dalla magistratura contabile sulla scelta dell’ente locale di dichiarare lo stato di dissesto oppure di accedere al diverso istituto del piano di riequilibrio. La questione è stata di recente affrontata dalla stessa Corte dei conti a Sezioni Riunite in speciale composizione nella pronuncia n. 32 del 12 novembre 2020 (ma v. anche Consiglio di Stato, sentenza n. 8108 del 17 dicembre 2020): in entrambe le pronunce si può cogliere la differenza fra i due istituti sia in termini di conseguenze che di procedura. Stante la comunanza del presupposto finanziario (la situazione di grave tensione finanziaria quale “causa” di entrambe le procedure), e la diversa prospettiva dei due rimedi, l’ente può operare una scelta, anche alla luce della situazione concreta in cui venga a trovarsi (cfr., al riguardo, la stessa Corte conti, SS.RR., 12 novembre 2020, n.32/2020/EL). Con il percorso pluriennale di risanamento l’amministrazione si assume la responsabilità – anche politica – di attivare e gestire la procedura volta a superare la situazione di squilibrio, ove, invece, si decida di dichiarare il dissesto, non può ravvisarsi alcuna interruzione del nesso causale, fintanto che si rientri nello spazio riservato al merito della scelta discrezionale, spettante all’amministrazione in carica, relativamente alle modalità con cui affrontare la situazione di “squilibrio strutturale del bilancio in grado di provocare il dissesto finanziario”. Non potendo tale tema, di rilevante impatto sistematico, essere funditus neppure approcciato in questa sede, rinviando all’approfondita disamina svolta nei precedenti ora richiamati, si segnala che il tema è stato oggetto di recente disamina da parte della dottrina. Non si è mancato, infatti, di evidenziare che la perentorietà e l’irrevocabilità delle due procedure trovano fondamento nella tutela del bilancio come “bene pubblico” (C. Cost., sentenze 20 luglio 2016 n. 184, 25 ottobre 2017 n. 228, 20 dicembre 2017 n. 274 e 13 aprile 2017 n. 80), «la cui salvaguardia, originata da una cattiva pregressa gestione, è “indisponibile” da parte dell’ente medesimo, il quale deve garantire, con ragionevole certezza, la continuità delle funzioni pubbliche e l’erogazione delle prestazioni costituzionalmente necessarie … se è vero che entrambe le procedure presuppongono l’insolvenza giuridico-finanziaria dell’ente locale, la sovrapposizione dell’art. 244 TUEL (presupposti del dissesto), con l’art. 243-bis, comma 1 (presupposti per il piano di riequilibrio), dimostra che vi è soltanto una parziale identità di presupposto e, quindi, che vi è un limite oltre il quale non è possibile il ricorso alla procedura di riequilibrio pluriennale ed è necessaria la dichiarazione del dissesto. Invero, se, da un lato, l’area degli “squilibri strutturali del bilancio in grado di provocare il dissesto finanziario” (art. 243-bis comma 1 TUEL) coincide con quello del “dissesto per ragioni finanziarie” (insufficienza delle “misure di cui agli articoli 193 e 194 […] a superare le condizioni di squilibrio rilevate”), per altro verso, se lo squilibrio strutturale è tale da non consentire più l’erogazione dei servizi o lo svolgimento delle funzioni essenziali, per ciò stesso l’ente versa in stato di dissesto: ossia, in uno stato in rapporto al quale il sistema predispone mezzi, anche procedurali, idonei a garantire comunque la continuità dell’amministrazione. … In definitiva, il PRFP è una procedura “succedanea” a quella di dissesto e a questa solo in parte alternativa. Come è stato evidenziato dalla Corte costituzionale, “di fronte all’impossibilità di risanare strutturalmente l’ente in disavanzo, la procedura del predissesto non può essere procrastinata in modo irragionevole, dovendosi necessariamente porre una cesura con il passato così da consentire ai nuovi amministratori di svolgere il loro mandato senza gravose ‘eredità’” (Corte costituzionale sent. n. 18/2019, § 6 in diritto) e ripristinare – con la separazione del bilancio in bonis (c.d. gestione ordinaria) da quello dissestato (cfr. art. 252, comma 4 TUEL) – le condizioni per erogare le prestazioni essenziali, rassicurando i fornitori e gli utenti sulla solvibilità e continuità funzionale dell’ente» (così F. Sucameli, La crisi dell’equilibrio del bilancio dell’ente locale: blocco della spesa, piani di riequilibrio e dissesto, in Studio sui controlli affidati dalla costituzione alla Corte dei Conti. Analisi sistematica di tutte le tipologie di controllo spettanti alla Corte dei Conti, a cura di V. Tenore – A. Napoli, Napoli, 2020, 569 ss.).

Tornando all’esame del decreto in rassegna, per giungere all’applicazione della sanzione, al presupposto di fatto (situazione finanziaria dissestata) deve accompagnarsi la dichiarazione di dissesto, cioè il presupposto di diritto configurato, secondo la prospettazione in analisi, quale condizione obiettiva di punibilità. Il fatto che la sanzione sia prevista dalla legge solo in caso di dichiarazione di dissesto, ma non anche nell’ipotesi in cui l’ente acceda al piano di riequilibrio, rientra nell’ampia discrezionalità del legislatore e non comporta una irrazionalità. Né è ravvisabile nella legge un obbligo, per gli amministratori, di ricorrere al dissesto solo qualora non sia possibile accedere al riequilibrio. L’ipotetico accesso alla procedura di riequilibrio presuppone, in vero, un’attenta analisi da parte degli amministratori che vi accedono, in merito alla concreta fattibilità del piano, che sempre più spesso si è risolto in un mero differimento del dissesto, proprio a causa dell’impossibilità per l’ente di raggiungere gli obiettivi previsti nel relativo piano di riequilibrio. Sulla base di tali elementi, il decreto in rassegna evidenzia che, ove si voglia ravvisare una possibile irrazionalità normativa nell’aver previsto l’applicabilità della sanzione alla sola dichiarazione di dissesto e non anche al piano di riequilibrio, pur avendo entrambi gli istituti lo stesso presupposto (dissesto per ragioni finanziarie), l’irrazionalità risiederebbe nel non aver previsto la possibilità di applicare la sanzione anche a carico degli amministratori che avevano concorso a creare lo squilibrio, indipendentemente dallo strumento con cui lo stesso fosse risolto.

Ripercorsi i motivi che hanno condotto il giudice monocratico all’accertamento della responsabilità degli amministratori e dell’Organo di revisione (con condotte gravemente colpose) nel verificarsi del dissesto, si sono al contempo accertate le condizioni per l’applicazione sia della sanzione pecuniaria che della sanzione interdittiva, ai sensi dell’art. 248, commi 5 e 5-bis, del d.lgs. 267/2000 (TUEL). In relazione all’applicazione della sanzione interdittiva di cui al primo periodo del citato art. 248, comma 5-bis, la legge richiede che il periodo di sospensione sia determinato “fino a dieci anni, in funzione della gravità accertata”; la determinazione di tale periodo, si legge nel decreto, non può che competere alla stessa Corte dei conti, in concomitanza con l’accertamento della responsabilità e l’applicazione della sanzione pecuniaria: pertanto, una volta richiesto l’accertamento di responsabilità, discende, direttamente dalla legge, l’applicazione della sanzione interdittiva accessoria in uno con il riconoscimento della responsabilità del dissesto. Si ricorda, infine, che il beneficiario della sanzione pecuniaria, oggetto del decreto in commento, resta l’ente locale dissestato, anche per ragioni di coerenza con la generalità delle sanzioni di cui all’art. 7-bis del medesimo TUEL.

Leggi l’intero decreto qui

S.C.

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