Non c’è danno se il reato è prescritto
Nota a sentenza Sez. Giur. Liguria 110/2020
La questione sottesa alla sentenza in commento riguarda il potere del Pubblico Ministero contabile di promuovere l’azione contabile per danno all’immagine, subito da parte della P.A. in relazione a una ipotesi di reato per cui non è stata emessa sentenza irrevocabile di condanna.
La Corte si interroga, segnatamente, sull’ipotesi in cui un pubblico dipendente abbia commesso un reato a danno della P.A. dichiarato prescritto con sentenza passata in giudicato, pienamente accertativa della responsabilità dei fatti ai fini della condanna dell’imputato al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili.
Sul punto, la sentenza n. 110/2020 offre un excursus sulla disciplina dell’esercizio dell’azione di risarcimento del danno all’immagine della P.A. da parte della Procura della Corte dei Conti.
Fino al 2009, è stata ritenuta proponibile la relativa domanda risarcitoria da parte del p.m. senza alcun limite, né in ordine al fatto generatore di responsabilità, né, tantomeno, con riguardo alla necessità che tale fatto venisse preventivamente accertato in sede penale.
Il legislatore è intervenuto nel 2009 a restringere l’ambito applicativo del danno all’immagine. In particolare, l’art. 17, comma 30ter, periodi secondo e terzo, d.l. 1 luglio 2009, n. 78 (c.d. Lodo Bernardo) ha previsto che le procure regionali della Corte dei conti esercitino l’azione per il risarcimento del danno all’immagine della P.A. “nei soli casi e modi” previsti dall’art. 7, l. 27 marzo 2001, n. 97.
Il richiamato art. 7 della l. n. 97/2001, a sua volta, ai fini della delimitazione dell’ambito applicativo dell’azione risarcitoria, faceva riferimento alle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica per alcuni delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. previsti dal capo I del titolo II del libro II del codice penale.
All’esito di questo primo intervento normativo, la risarcibilità del danno all’immagine era quindi limitata all’ipotesi di condanna irrevocabile del pubblico dipendente per uno dei delitti commessi dai pubblici ufficiali contro la PA (artt. da 314 a 335-bis del codice penale). Il risarcimento del danno all’immagine era, quindi, caratterizzato dal principio di tassatività delle ipotesi e dalla regola della pregiudizialità penale (richiedendosi una sentenza di condanna definitiva)[1].
Tale disciplina ha subito una ulteriore trasformazione per effetto della successiva entrata in vigore del Codice di giustizia contabile. In particolare, l’allegato 3 del Codice di Giustizia contabile all’art. 4, comma 1, lett. h) ha abrogato l’art. 7, l. 97/2001 a cui fa rinvio l’art. 17, comma 30-ter del “Lodo Bernardo”. Pertanto, detta norma continua a fare rinvio ad una previsione che lo stesso codice ha contestualmente abrogato.
La sentenza in commento delinea i due orientamenti giurisprudenziali che sono sorti a seguito della modifica legislativa.
Secondo un primo orientamento, la disciplina normativa vigente legittimerebbe una un’interpretazione secondo cui – nonostante l’abrogazione dell’art. 7, l. 97/2001 – non rimanga privo di effetto il rinvio ad esso operato da parte dell’art. 17, co. 30-ter, del d.l. n. 78/2009. Si tratterebbe, infatti, di un rinvio non mobile ma fisso e, come tale, insensibile alla modifica della norma oggetto di rinvio. La materia sarebbe, quindi, ancora regolata dall’art. 17, co. 30-ter che incorporerebbe il contenuto precettivo dell’abrogato art. 7.
Il Collegio ligure sposa, invece, un secondo orientamento che qualifica il rinvio operato dall’art. 17, co. 30-ter come “mobile”. Si fa, in particolare, riferimento – come disposizione cui dovrebbe riferirsi oggi il rinvio di cui all’art. 17, co. 30-ter – all’art. 51 cod. giust. cont., il quale stabilisce al comma 7 che “la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché degli organismi e degli enti da esse controllati, per i delitti commessi a danno delle stesse, è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall’articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”.
In base a tale interpretazione, le condizioni di risarcibilità del danno all’immagine sarebbero quelle di cui all’art. 51, co. 7: in primo luogo il fatto che sia stato commesso un delitto “a danno” della Pubblica Amministrazione e, in secondo luogo, che tale delitto sia stato accertato con sentenza irrevocabile di condanna. Si tratta di una soluzione che trova implicita conferma nell’art. 4, co. 2, all. 3 cod. giust. cont., il quale stabilisce che “quando disposizioni vigenti richiamano disposizioni abrogate dal comma 1, il riferimento agli istituti previsti da queste ultime si intende operato ai corrispondenti istituti disciplinati nel presente codice”.
La decisione in commento, pertanto, esclude che sussistano i presupposti per l’esercizio dell’azione di risarcimento del danno all’immagine in presenza di una sentenza penale che dichiara estinto il reato per prescrizione. Si afferma, inoltre, che l’assenza di una condanna irrevocabile “non può essere compensata da una condanna civilistica alle spese e al risarcimento dei danni”[2]. Ciò si ricava, in primo luogo, dal fatto che l’art. 51, co 7 del Codice è inequivoco nel richiedere una condanna penale definitiva. In secondo luogo, è indubbio che il danno all’immagine presenta alcuni caratteri estranei alla responsabilità civile e, al contempo, tipici della sanzione penale. Infatti, il danno all’immagine della P.A. ben si presta a manifestare quella doppia sfaccettatura della responsabilità amministrativa che, da un lato, richiama la natura compensativa e riparatoria della responsabilità civile e, dall’altro, il carattere sanzionatorio e deterrente tipico della sanzione penale.
Da ultimo, la sentenza esclude che ci siano gli elementi per sollevare una (nuova[3]) questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, co. 7, nella parte in cui non consente l’esercizio dell’azione risarcitoria in caso di dichiarazione della prescrizione del reato con sentenza passata in giudicato pienamente accertativa della responsabilità dei fatti.
Il difetto di legittimazione sostanziale del p.m. erariale, infatti, discenderebbe dall’assenza nel caso in esame di un delitto commesso “a danno” della Pubblica Amministrazione (così come richiesto dall’art. 51, co 7 del Codice). Il Collegio accoglie, dunque, una interpretazione restrittiva della nozione di “delitto delitto a danno della P.A.”. In particolare, non costituirebbero reati “a danno” dell’Amministrazione tutti quei reati in cui la condotta non sia “direttamente” rivolta a danno della P.A. ma solamente nei confronti di privati cittadini. Pertanto, ai fini della sussistenza di un danno all’immagine, viene valorizzata la circostanza che il legislatore ha inteso individuare fra i “delitti a danno” esclusivamente quei reati che contemplano la Pubblica Amministrazione quale soggetto passivo del reato.
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Si tratta di una limitazione che è stata riconosciuta come costituzionalmente legittima dal Giudice delle leggi, secondo cui rientra nella discrezionalità del legislatore – con il solo limite della non manifesta irragionevolezza e arbitrarietà della scelta – conformare le fattispecie di responsabilità amministrativa, valutando le esigenze cui si ritiene di dovere fare fronte (Cfr. Corte cost., 15 dicembre 2010, n. 355). ↑
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Corte dei conti, sez. Liguria, sent. n. 110 del 5 novembre 2020, “diritto”, par. 3, p. 8. ↑
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Sulla medesima questione si era già pronunciata la Corte costituzionale che ha ritenuto le questioni proposte “inammissibili per inadeguata rappresentazione del quadro normativo entro il quale la disposizione impugnata è ricompresa”. (Sent. n. 191/2019, “Considerato in diritto”, par. 3, p. 6). ↑