Note alla sentenza della Corte di cassazione, Sezioni Unite, 19 gennaio 2021, n. 783
Con la pronuncia in rassegna le Sezioni Unite della Corte di cassazione, nel solco di un orientamento già da tempo consolidato, hanno ricondotto nell’ambito della giurisdizione della Corte dei conti i danni procurati all’erario dall’attività delle case di cura private convenzionate.
La decisione trae origine dalla contestazione elevata dalla Procura regionale della Corte dei conti per la Regione Toscana, tra gli altri, all’Istituto Fiorentino di Cura e Assistenza S.p.A. (IFCA) e alla Valdisieve Hospital S.r.l. per l’indebita percezione di rimborsi a carico dell’erario nello svolgimento di attività assistenziale. Le suddette case di cura, in particolare, prolungavano oltre il necessario la durata dei ricoveri per interventi chirurgici ed eseguivano esami e accertamenti diagnostici in regime di ricovero quando gli stessi avrebbero potuto essere svolti in ambulatorio o in regime di preospedalizzazione.
Il giudice contabile, con una pronuncia poi confermata in appello, ha affermato la propria giurisdizione e condannato i convenuti al risarcimento del danno erariale. Le case di cura hanno dunque adito la Corte di cassazione con due distinti ricorsi, respinti previa riunione in rito.
La Corte regolatrice, in particolare, ha ritenuto sussistente nel caso di specie la giurisdizione della Corte dei conti, affermando che con il provvedimento di accreditamento il soggetto privato viene inserito nell’organizzazione della P.A. in modo continuativo e sistematico, con conseguente instaurazione di un rapporto di servizio e l’applicazione del regime della responsabilità erariale.
Non rileverebbe, in senso contrario, la circostanza, sottolineata dalle ricorrenti, secondo la quale la stessa Corte di cassazione, in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, abbia demandato al giudice ordinario la controversia instaurata dalle case di cura nei confronti della ASL Toscana per il riconoscimento della remunerazione spettante in base alle convenzioni in essere.
Ad avviso della Suprema Corte, che sul punto richiama un principio granitico nella giurisprudenza delle stesse Sezioni Unite, la giurisdizione civile e penale, da un lato, e quella contabile, dall’altro, sono reciprocamente indipendenti anche quando le controversie instaurate dinanzi ai rispettivi plessi siano accomunate da un medesimo fatto materiale, essendo distinti in ciascuna sede i profili oggetto di valutazione; sicché, l’eventuale pendenza di un giudizio civile pone semmai una questione di proponibilità dell’azione di responsabilità da far valere dinanzi alla Corte dei conti e non una questione di giurisdizione.
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La sentenza appena illustrata merita segnalazione per due profili, entrambi relativi alla delimitazione dei confini della giurisdizione della Corte dei conti: il primo dall’interno, attraverso l’interpretazione del concetto di rapporto di servizio; il secondo dall’esterno, rispetto alle reciproche interferenze tra giudice contabile e giudice civile.
Quanto al primo aspetto, le Sezioni Unite aderiscono ancora una volta all’orientamento che adotta una nozione funzionale di rapporto di servizio, quale presupposto della responsabilità amministrativa, fondata sulla valorizzazione del nesso dell’attività svolta, attraverso l’utilizzo di risorse pubbliche, con l’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione.
Sono, dunque, pienamente superati gli indirizzi risalenti, inaugurati con le sentenze delle Sezioni Unite n. 363/1969 e n. 1282/1982, che avevano individuato gli elementi caratteristici del rapporto di servizio, rispettivamente, nella natura del soggetto agente o negli strumenti giudici impiegati nell’ambito di una determinata attività; secondo l’interpretazione più innovativa, deve invece darsi risalto all’inserimento del soggetto esterno nell’iter procedimentale dell’ente pubblico come compartecipe dell’attività ai fini pubblici di quest’ultimo.
L’ampliamento del concetto di rapporto di servizio e conseguentemente del novero dei soggetti sottoposti al regime della responsabilità amministrativa, limitato in origine ai soli funzionari legati all’amministrazione da un rapporto di ufficio, si è pertanto adeguato alle nuove modalità di svolgimento dell’attività dei pubblici poteri.
Gli interventi normativi degli anni Novanta dello scorso secolo hanno, infatti, introdotto un nuovo modo di amministrare non più basato su moduli autoritativi, bensì sull’utilizzo dei più agili strumenti del diritto privato, fortemente incentivato, nel progressivo percorso di affrancamento dalle rigide maglie pubblicistiche, dall’approccio sostanzialista proprio del diritto comunitario.
Si è, pertanto, reso necessario garantire la piena realizzazione dei principi costituzionali relativi alla tutela degli interessi finanziari dello Stato-comunità, primo tra tutti l’art. 81 Cost., anche quando la gestione degli stessi sia affidata a soggetti esterni all’amministrazione e purtuttavia inseriti nell’ambito della sua organizzazione al fine di orientarne i meccanismi decisionali.
Non v’è dubbio che le case di cura private, in forza di un rapporto di tipo concessorio con l’ente regionale che deriva direttamente dalla legge, contribuiscano alla realizzazione dell’interesse pubblico svolgendo servizi di assistenza sanitaria secondo un modello di tipo anglosassone di concorrenza amministrata o quasi mercato, caratterizzato dall’esistenza di una pluralità di soggetti erogatori e ispirato al principio della libera scelta della prestazione sanitaria. In altre parole, in forza della concessione il soggetto privato si inserisce nel sistema pubblico di tutela della salute offrendo prestazioni analoghe a quelle garantite dagli enti pubblici attraverso la gestione diretta di risorse pubbliche.
Ne consegue che la relativa attività, al fine di soddisfare i bisogni della collettività, debba essere assoggettata ai principi che governano l’azione amministrativa, primo fra tutti il canone costituzionale del buon andamento, enunciato dall’art. 97 Cost., con i suoi corollari dell’economicità e dell’efficacia, richiamati dall’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e che il giudice contabile possa impiegare i suddetti parametri al fine di apprezzare se i poteri concretamente esercitati siano adeguati ai fini dell’interesse pubblico perseguito o se invece abbiano trasmodato in decisioni esorbitanti ed estranee all’interesse stesso.
La Suprema Corte, sulla base di tali presupposti, ha più volte affermato l’inammissibilità di interpretazioni restrittive delle disposizioni che fissano l’ambito della giurisdizione del giudice contabile, da alcuni definita come “giurisdizione esclusiva sul danno pubblico”.
Il secondo profilo di interesse della pronuncia in commento attiene alla definizione del rapporto tra giudice contabile e giudice civile, qualificato come di reciproca indipendenza, attenendo il relativo sindacato, rispettivamente, alla verifica delle modalità di impiego delle risorse pubbliche e all’adempimento di un obbligo di prestazione.
Mentre la responsabilità civile è finalizzata a tutelare l’interesse privato dell’ente, nell’ambito della responsabilità amministrativo-contabile, come affermato dalla Corte costituzionale nella storica sentenza n. 104/1989, il Pubblico Ministero agisce, in posizione obiettiva e neutrale, onde accertare l’eventuale lesione inferta all’efficienza dell’azione amministrativa, nonché alla sua indipendenza, buon andamento ed imparzialità, a tutela dell’ordinamento nei suoi aspetti generali e indifferenziati.
È dunque possibile che da un medesimo fatto materiale scaturisca una lesione a entrambi tali interessi, sì che le azioni incardinate dinanzi ai due giudici concorrano, pur restando assoggettate ciascuna al proprio regime. Ma è anche possibile che la pretesa azionata dinanzi al giudice civile sia infondata, pur verificandosi una compromissione degli interessi pubblici per effetto della violazione dei parametri di efficienza ed economicità.
L’assenza di un danno civilistico, pertanto, non esclude la sussistenza di un danno erariale; come affermato da autorevole dottrina, si può amministrare bene e produrre un danno e si può amministrare male e non produrre un danno.
Nel caso in esame, il giudice civile era stato chiamato a stabilire l’esatto ammontare delle somme spettanti alle case di cura a titolo di rimborso in relazione alle prestazioni effettuate, verificando, in definitiva, l’adempimento delle obbligazioni relative all’assistenza sanitaria che la struttura era obbligata a rendere, mentre il giudice contabile era tenuto a valutare se le prestazioni svolte (e per le quali si chiedeva il rimborso) avessero corrisposto o meno al principio di economicità dell’azione amministrativa per essersi protratte per un tempo più lungo del necessario, con inutile dispendio di risorse pubbliche.
Ancorché i rapporti di dare e avere tra le case di cura e l’ASL fossero ancora in contestazione, il danno pubblicistico era già attuale e ravvisabile nello sperpero del denaro pubblico derivante dall’irrazionalità dell’attività gestoria da parte delle case di cura, avendo la ASL corrisposto alle stesse rimborsi eccessivi e quindi irragionevoli.
La questione dell’adempimento delle obbligazioni dedotte nel contratto di concessione, che costituisce l’oggetto del giudizio azionato dinanzi al giudice ordinario, non viene pertanto in rilievo, se non come elemento di valutazione delle condotte e dell’elemento soggettivo, dinanzi al giudice contabile, chiamato invece ad apprezzare l’idoneità dell’azione posta in essere dal privato al perseguimento del pubblico interesse, coincidente con la tutela della salute mediante un’efficiente gestione delle risorse pubbliche.
Le considerazioni appena svolte offrono lo spunto per osservare che l’esigenza di tutela della finanza pubblica, per un verso, giustifica la mobilità dei confini interni della giurisdizione della Corte dei conti, alla quale devono essere assoggettati tutti coloro che, a qualsiasi titolo, gestiscono risorse pubbliche, e, per altro verso, impone la reciproca autonomia e indipendenza tra giudizio contabile e giudizio incardinato dinanzi al giudice ordinario. Tale autonomia appare, del resto, rafforzata in seguito alla concentrazione, a opera del Codice di giustizia contabile, di strumenti di tutela risarcitoria o conservativa dinanzi alla Corte dei conti, nell’ottica di una tutela piena ed effettiva in linea con i principi del giusto processo.